Recensioni & Interviste, Teatro
Ferruccio Reposi: «Ecco come salvare il teatro dialettale alessandrino»
Domenica 15 gennaio 2017, alle ore 18 presso la Sala Ferrero del Teatro Comunale di Alessandria, la Compagnia Teatrale Divergenze Parallele porta in scena Bartlamé Lonsavegia, commedia in dialetto alessandrino scritta nel 1946 da Enrico Reposi, padre di quel Ferruccio Reposi che tutti noi abbiamo imparato a conoscere in questi anni per il suo impegno nel Teatro Dialettale. Noi lo abbiamo intervistato.
Domanda: Come e quando nasce questa passione per l’alessandrinità interpretata sul palcoscenico?
Risposta: Nasce nella seconda metà degli Anni ’80 quando conobbi Sandro Locardi che mi propose di eseguire alcune letture di sue poesie dialettali. Costruimmo uno spettacolo che andò in scena alla Sala Ferrero, la prima volta e poi alla Sala Grande per il sempre crescente numero di spettatori.
D: La sua compagnia è Divergenze Parallele, ci racconti di questa realtà.
R: La Compagnia è stata fondata dal sottoscritto nel settembre 2009. È un’associazione di tipo onlus. Si compone di 10 elementi base, attorno ai quali ne ruotano altri a seconda delle necessità, ovvero secondo la scelta del testo. Ogni anno allestiamo un nuovo spettacolo: abbiamo iniziato con Lorca e poi, via via, si sono susseguiti autori noti e meno noti; da Pirandello a Nicolaj, Faele (l’autore che scriveva per Alighiero Noschese, ndr) e altri ancora.
D: Ora, domenica al Teatro Comunale di Alessandria, porterete in scena un altro tipo di commedia.
R: Come già detto poco sopra la commedia dialettale Bartlamé Lonsavegia è stata scritta da mio padre Enrico (pseudonimo Ukri – anagramma di Riku, dal dialetto alessandrino: Enrico, ndr). Mette in evidenza la vita e la mentalità degli anni ’50, di una famiglia operaia in cui, una delle due nipoti del protagonista, fugge da casa, con la complicità del nonno Bartlamé, per andare a Roma ad intraprendere la carriera di attrice cinematografica. Questo con grandi sacrifici: «…’sta mata d’au dì la travajava e la sira la studiava e scalén, dop scalén lè rivaja andó ch’l’auriva rivè; da sula ! Sensa l’apogg d’j’ën d’la famija !!» È anche una denuncia del fatto che i giovani stanno perdendo l’abitudine al dialetto. Il fatto è che sanno poco anche l’italiano…
D: Come valuta il presente e in prospettiva, il futuro del teatro e della poesia dialettale alessandrina in particolare e piemontese più in generale?
R: Il presente è tutto in questa commedia, abbiamo voluto portare a conoscenza dei più giovani, aspetti e comportamenti di vita che, probabilmente, in qualche famiglia alessandrina, hanno ancora ragione di esistere. Il futuro dipende anche un po’ da noi… Per esempio far conoscere i classici, traducendo in dialetto i loro testi. Non dimentichiamo che Pirandello scrisse le sue prime commedie in dialetto siciliano.
D: Lei era molto amico del compianto Antonio Silvani con il quale avete condiviso tantissime esperienze.
R: Antonio Silvani per me è stato un fratello. Abbiamo fatto una quantità notevole di serate dialettali, dopo la scomparsa di Sandro Locardi. Adesso Antonio ci ha lasciato non senza averci trasmesso quell’entusiasmo e quell’amore per il nostro dialetto di cui andiamo fierissimi e per il quale vorremmo proseguire nell’intento di portarlo sovente sul palcoscenico. L’avevo promesso ad Antonio. Guai a me se non dovessi mantenere la parola data! Tanto, abbiamo cominciato.
D: Progetti per l’immediato futuro?
R: Il futuro per noi è… già passato! Mi spiego. L’impegno per portare in scena questo spettacolo a cui seguiranno altre repliche e l’altro impegno, quello relativo al trittico pirandelliano (Cecè – Lumie di Sicilia – La morsa, ndr), allestito lo scorso anno ma che ancora teniamo in cartellone, riduce drasticamente il tempo per il nuovo allestimento che, comunque, faremo. «Fisti orbi» se lo faremo !! Quale ? Non l’ho ancora deciso ma sarà sicuramente un classico; forse Shakespeare. Chissà !
David Robotti
Recensioni & Interviste, Teatro
Alessandro Pestarino: «Il femminicidio? Lo racconto in un film»
Scrittore, romanziere, sceneggiatore e anche regista. Alessandro Pestarino, giovane ovadese classe ’94, è a tutti gli effetti un artista a 360 gradi. Diventato famoso soprattutto per il romanzo I racconti di D.E.A.T.H., non ha mai nascosto di avere una vera e propria passione per il mondo del cinema in particolare e della recitazione in generale (leggi qui la nostra precedente intervista). Ecco che non ci sorprende, a due anni dal suo ultimo lavoro, trovarlo alle prese con la direzione del suo primo cortometraggio. Una storia tragica quanto attuale che prende spunto dalla cronaca di tutti i giorni e dal femminicidio.
DOMANDA: L’avevamo lasciata nei panni di scrittore coi Racconti di D.E.A.T.H. e ora la ritroviamo in quelli di regista. Che esperienza è stata?
RISPOSTA: Accattivante quanto impegnativa. Una sfida costante con me stesso, che di anni ne ho solo 22 e di strada ne ho ancora da fare moltissima, ma allo stesso tempo un gradito ritorno al passato.
D: Ci spieghi.
R: Non è la prima volta che vesto i panni del regista. Avevo infatti avuto già la fortuna di dirigere un piccolo corto amatoriale quando avevo 17 anni, quindi non si è trattata di una novità assoluta per me. Diciamo che è stata una sorta di piacevole ritorno, ma con esperienza in più e, conseguentemente, con soddisfazione maggiore. Entrambi i corti sono diametralmente opposti, però, anche se quello che ho appena finito rimane comunque un prodotto indipendente, mi sono ritrovato a lavorare all’interno di un ambiente molto più professionale e strutturato e con in mente un progetto chiaro sia per il film che per il suo futuro, quindi, in un certo senso, posso considerare questo mio ritorno alla regia come l’esordio ufficiale.
D: Di cosa parla il suo ultimo lavoro?
R: Tratta di un tema molto delicato quanto attualissimo, purtroppo, ed è il femminicidio. Ho cercato di riassumere già nel titolo (Quello che amore non è, ndr), una chiara presa di posizione di fronte all’argomento. Ma ci tengo a dire che non ho voluto raccontare una vera e propria storia, quanto più seguire il filo conduttore della tematica intercalandolo con delle estemporanee, delle immagini dal gusto un po’ surrealista per permettere ad ogni spettatore di declinare il film secondo il proprio gusto ed il proprio pensiero.
D: Come mai proprio questa tematica?
R: Non ho una risposta originale a portata di mano. Credo che il cinema, anche in piccole proporzioni come il caso del mio cortometraggio, abbia tra le sue prerogative di fare da raccoglitore delle emozioni e delle problematiche di un dato momento e di una data società. Diciamo, una sorta di scatola che viene aperta al momento della visione e che spero possa essere foriera di una riflessione, di un piccolo lascito in ognuno di noi che maturando possa poi produrre i suoi frutti, anche se mi rendo conto che è molto ambizioso per non dire utopistico.
La violenza contro le donne è un tema caldo di oggi e anche per questo ho voluto dare la mia piccola lettura del fenomeno e il mio contributo alla memoria, sperando di aver fatto un buon lavoro.
D: Sa già dove e se sarà distribuito?
R: Allora, con l’inizio dell’anno nuovo lo iscriveremo a tutti i festival sia nazionali che internazionali e vedremo quali ci accetteranno e in quali potremmo gareggiare. Poi, sono in contatto con i comuni e le istituzioni della zona per organizzare un evento ancora da definire all’inizio del 2017 per presentare il corto nel territorio e parlare della tematica del femminicidio. Infine, sono in contatto con un mio docente di sceneggiatura dell’Università di Torino e un produttore cinematografico che attendono il film come mio biglietto da visita da utilizzare per poi poter realizzare il mio primo film inserito effettivamente nel circuito cinematografico ufficiale.
D: Ha già altri progetti in mente?
R: Sì, tanti. Ma ora sono molto concentrato su tre sceneggiature per lungometraggi che mi piacerebbe proporre, appena le avrò finite, a dei produttori. Al momento posso solo dire tre temi diversi: nevrosi della quotidianità, nevrosi del potere, nevrosi del successo. Una sorta di trilogia antologica. Non posso dire altro anche perché sono progetti ancora in fase embrionale.
D: Quanto la rivedremo invece in libreria
R: Spero presto. Ho giusto ultimato questa settimana la correzione definitiva di una raccolta antologica di racconti horror. A breve inzierò la ricerca di un editore che mi possa portare effettivamente sugli scaffali dei libri, e quindi passare anche qui, come per il mio corto, da un primo esordio ufficioso, a un esordio ufficiale. Non so dare una tempistica, ma spero il prima possibile.
Federico Capra
Recensioni & Interviste, Teatro
Federica Sassaroli: «Il teatro a modo mio»
Federica Sassaroli, genovese di nascita ma alessandrina di adozione è insegnante, speaker, attrice di teatro, comica, autrice, regista, narratrice e animatrice di pupazzi. Diplomata in recitazione al Teatro Libero di Milano e in doppiaggio presso il C.T.A., è inoltre laureata in Lingue e Letterature Straniere.
Presta la voce per spot radiofonici e televisivi. Dal 2007, grazie alla Mama Records, è la voce ufficiale di Vodafone. Nel 2011 vince il Festival Nazionale del Cabaret in Rosa, finalista al Festival Nazionale del Cabaret nel 2007 e assidua frequentatrice del palcoscenico di Zelig con i personaggi della cuoca spagnola Lola e della showgirl Noemi. Dal 2012 è nel cast di Copernico, su Comedy Central.
È autrice e interprete di spettacoli come Federica da zero, Neanche le caprette mi salutano più, Prima o poi un titolo lo trovo, Sii come l’ippopotamo, Lei non sa chi sono io! Storie m’alate alla ricerca di sé…
È inoltre adattatrice, autrice e narratrice di favole e racconti per il teatro ragazzi, come La Gabbianella e il Gatto, Il Treno dei folletti di Natale, Pinocchio in viaggio, Il mio primo Chisciotte, Il giro del mondo in 80 giorni e molti altri.
Altrettanto impegnata nel sociale, ogni anno propone laboratori di teatro per ragazzi e per insegnanti.
Domanda: Lei non sa chi sono io! Ecco, chi è Federica Sassaroli?
Risposta: L’unica certezza che io ho di Federica Sassaroli, una tipa che frequento abbastanza, è che è una persona che cambia, che muta, che cresce e che cerca di essere sempre più consapevole di chi è. Fondamentalmente quello è il viaggio della vita, il viaggio totale, è il viaggio di osservazione, di scoperta, è un allenamento a scoprirsi, ad ascoltarsi, a guardarsi e poi aprirsi all’altro. Finché non ti comprendi, non comprendi te stesso e tutte le tue facce, tutte le tue verità, non puoi aprirti realmente all’altro. A questo desiderio di conoscere me stessa mi ha instradato il training teatrale…e poi altre esperienze, tra cui ad esempio la malattia di cui ho parlato nello spettacolo Lei non sa chi sono io. E’ per questo motivo che io parlo in maniera entusiastica del training teatrale,credo sia un’esperienza da fare almeno una volta nella vita, se vuoi scoprire chi c’è dietro, davanti e dentro di te.
D: Galeotta fu quella vacanza in Spagna quando era adolescente…
R: Galeotta nel senso che io ero minorenne e lui era maggiorenne? Nel senso lui ha rischiato la galera? L’amore per lo spagnolo era già esploso tempo prima, solo che all’inizio era un amore intellettuale, successivamente è diventato anche un amore “fisico”. In realtà, a volerla dire tutta, con il mio lui ci fu poco più di un bacio nell’orecchio sinistro, lo si intuisce anche nello spettacolo. La lingua spagnola ha avuto la capacità di darmi delle grandi emozioni e infatti mi ha sempre accompagnata, non l’ho mai abbandonata, mi ha dato sempre delle belle soddisfazioni e spero di averne date anche io qalcune a lei, a chi ha voluto impararla con me come insegnante a scuola oppure come insegnante virtuale in Spagnolo da Zero nel libro edito da Mondadori e nel corso in dvd. Ecco, è un grande amore reciproco quello tra me e la lingua spagnola… spero per lei, insomma.
D: Parliamo di due personaggi a cui è molto legata. Partiamo da Lola, ha preso il Master in polenta e funghi?
R: Allora ci tengo a precisare (re-impersona Lola e risponde in spagnolo, ndr) che quando sono venuta in Italia il Master era in polenta e osei e abbiamo cucinato per tre mesi polenta e osei, polenta e osei, polenta e osei. Io non ho mai visto tanta polenta ma neanche tanti osei se devo dire la verità… e allora mi sono fermata in Italia.
Ebbene sì! Lola ha preso il Master, che in verità è originariamente in polenta e osei (uccelletti in dialetto veneto, ndr) poi essendo diventata la protagonista di uno spettacolo di educazione alimentare, gli osei si sono trasformati giustamente in funghi perché gli osei non vanno mangiati e poi essendo uno spettacolo sia per adulti che per ragazzi mi sembrava meglio evitare la battuta a sfondo sessuale.
D: E invece Noemi ha trovato lavoro in Tv?
R: Io spererei di no pur tuttavia Noemi piaceva molto, come d’altronde purtroppo piace ancora molto quel genere di donna svampita. Lei nasce da personaggi veri. Sono andata un paio di volte nella mia vita a fare dei provini per la televisione e in quell’occasione mi guardavo in giro come un’aliena; mi chiedevano, me lo ricordo ancora “il profilo destro, il profilo sinistro, palmi delle mani, dorsi delle mani” e io che ridevo mentre facevo questa cosa e mi chiedevo perchè lo stessi facendo…quanto mi imbarazzarono quelle situazioni! Entrambi questi personaggi sono nati nel momento in cui sappiamo bene chi c’era a capo del governo e onestamente non nutrivo una grande simpatia per quell’uomo che ha depauperato completamente le menti delle persone. Di certo non è stato il responsabile unico, ma ha dato una bella mano. In Tv sfondava la figura della velina, dell’incompetente incapace che però andava bene solo perché aveva un bel lato b. Lola era un pochino più raffinata, era un confronto tra Italia e Spagna, in cui la Spagna ne veniva fuori come un paese “adelante adelante”, anche se poi in verità così “adelante” non era, ma noi eravamo talmente indietro che la Spagna risultava essere un paese all’avanguardia, la classe politica ben più dignitosa della nostra, i mezzi di comunicazione migliori dei nostri. Una classe politica e un paese ben più razionalmente organizzati e autonomi nei rapporti con la Chiesa. Gli spagnoli sono cattolici ferventi ma sanno essere laici al momento giusto.
D: Nel 2012 lei gira un cortometraggio intitolato Il Risveglio…metafora di alcuni momenti di vita quotidiana e di approccio alla società moderna, messaggi, mail… call center…
R: il Risveglio è stato un gioco. E’ stato girato a casa mia. Ci siamo trovati un pomeriggio con un paio di amici a fare questo cortometraggio con questa idea di Paolo Serra perché comunque volente o nolente rappresento quel mondo, essendo la voce guida di Vodafone. Vorrei che le persone frequentassero meno l’ambito virtuale e di più l’ambito reale. Farebbe bene a tutti me compresa, perché mi rendo sempre più conto di quanto questo mondo virtuale ci inghiotta e ci separi. Ci dà un illusione di comunicazione ma in realtà ci sta dividendo, ci sta impedendo di guardarci negli occhi. Guardarsi negli occhi, a parer mio è l’unica comunicazione vera.
D: Temi sociali importanti trattati in Neanche le caprette mi salutano più, scritta a quattro mani con Massimo Brusasco.
R: È stato divertente, molto divertente perché è stato un salto nel mio passato ma anche nel passato di Massimo Brusasco che ha pochi anni più di me. Quando eravamo bambini erano in voga altri cartoni animati per cui l’excursus è stato su tutta la televisione per bambini di quel periodo. Un esempio simpaticissimo? Beh…il fatto che Clara a distanza di anni per riacquistare notorietà si presenti da Barbara D’Urso e finga di non essere mai guarita e quindi resta sulla sua sedia a rotelle per non perdere audience.Questo tema dell’audience, del voler far mostra di falsità a tutti i costi, è uno dei temi che si trova anche in un altro mio spettacolo: Alice anima leggera in circostanze esasperanti. I protagonisti sono i personaggi delle favole che, per ritornare di moda, si inventano un reality in cui la presentatrice è una sorta di Simona Ventura/Cenerentola senza scrupoli che dà in pasto agli spettatori i sogni dei concorrenti, tra cui quelli di Alice, la quale decide di ribellarsi a questo sistema e di scappare per poi proseguire il suo percorso di verità altrove.
D: Ha più volte sottolineato che l’italiano è forse l’unica lingua al mondo in cui il termine giocare si differenzia dal termine recitare. In questo contesto cosa significa per lei il gioco?
R: Giocare sul palcoscenico per me significa tutto perché nel gioco puoi essere tutto e se tu provi ad essere tutto puoi capire chi sei e riesci a capire che cosa appartiene a te davvero e che cosa appartiene agli altri, cioè quali sono i ruoli che ti sei dato tu e quali sono quelli che invece ti ha dato la società. Ad un certo punto scopri che la maggior parte dei ruoli non te li sei scelti tu. Quindi a forza di giocare con le maschere,capisci quali sono le tue maschere e scopri chi c’è dietro. Se fossimo capaci di vederla senza maschere, la vita sarebbe un gioco straordinario.
D: In Sii come l’ippopotamo rilegge in chiave teatrale una storia bellissima di Stefano Benni. Se la invitasse ad accompagnarlo in un altro viaggio tra le sue storie surreali e fantasiose, quale sceglierebbe?
R: In questo spettacolo in verità io leggo diversi brani di Stefano Benni. Io amo molto la storia di Margherita Dolcevita perché mi ci identifico molto, però non nascondo che il mio sogno sarebbe che Stefano Benni scrivesse qualcosa per me, sarebbe bellissimo anche perché,secondo me, diciamocelo…io sarei proprio “da Stefano Benni”, nel senso che sono convinta che a Stefano Benni potrebbe piacere come potrei interpretare qualcosa di suo.
Però non lo so…io non gliel’ho mai detto…
Vorrei interpretare la storia che ancora non ha scritto e che scriverebbe per me!
Eh…noi sognatrici concrete!
Ma in ogni caso io ho fatto cose che non avrei mai pensato di fare e poi quando quando ho cominciato a pensarle le ho concretizzate, quindi…resto aperta ai miei pensieri e agli eventi della vita!
D: Ora sta lavorando ai laboratori teatrali per bimbi e insegnanti.
R: Ci tengo a mettere l’accento sul fatto che quelli che faccio sono appunto “laboratori” e non “corsi” perché il laboratorio ti dà l’idea della sperimentazione, di qualcosa che fai in uno spazio che ti concede libertà espressiva. Per i bambini è fondamentale perché serve a cominciare a prestare attenzione alla propria sensorialità, a riconoscersi, a riconoscere se stessi dentro gli elementi teatrali quindi dentro l’emozione, dentro l’ascolto di sé e dell’altro. E’ fondamentale per i bambini, per i ragazzi ma anche per gli adulti perché insegna a focalizzare l’attenzione, ad aumentare la concentrazione, a rafforzare l’autostima. Lo faccio anche per gli insegnanti, saltuariamente. Secondo me viene considerato uno strumento importante per i bambini ma non per gli insegnanti. Io credo che un docente possa insegnare ai propri studenti a pensare come individui liberi se lui stesso ha un pensiero libero. Solo così può riconoscere i pregi e i talenti del suo allievo, altrimenti ci sarà sempre un gioco di specchi che non ti farà comprendere fino in fondo chi sei tu e quindi chi hai davanti e come agisce in relazione all’altro. C’è una frase di Peter Brook, un maestro del teatro del Novecento che dice che il teatro è un rinnovarsi, un purificarsi sia per l’attore sia per lo spettatore, dice che la risata e le emozioni intense liberano l’organismo di parte delle scorie. Il teatro ha proprio questa capacità di farlo. Io metto sempre l’accento sulla parola laboratorio e sul fatto che a fine anno si fa una lezione aperta, non si fa uno spettacolo perché io non cerco una performance, specialmente con i bambini. E anche con gli adulti verifico sempre che ci sia la volontà di fare, di mettere in scena qualcosa che sia sentito come qualcosa di personale perché nel momento in cui vedo che l’andare in scena diventa performativo capisco che si è perso il vero spirito del “mio” teatro, di ciò che vorrei fare veramente.
D: Ci sveli i sui progetti dell’immediato futuro e le sue ambizioni professionali
R: Ho in progetto due puntate zero di due cose diverse, una per la radio e una per la Tv, ma non per quella italiana. Non posso rivelare ancora niente perché come al solito bisogna vedere se poi la produzione ha abbastanza risorse per portare avanti il progetto. Poi sempre i laboratori e gli spettacoli. Quest’anno farò sempre teatro ragazzi, rimetterò in scena un Pinocchio in viaggio con un fantastico ballerino e attore di origine indiana che ha lavorato con me quando aveva dodici anni, quindi ora sarà un Pinocchio ancora più bello e più bravo. Poi ci sono gli spettacoli in lingua spagnola nelle scuole. Questi più o meno a grandi linee i progetti attuali poi durante l’anno si aprono sempre nuove cose ed è sempre un piacere.
Dimenticavo che tra i progetti e le ambizioni c’è un percorso che sto mettendo a punto che si chiama Teatro delle Percezioni in cui mescolo le tecniche teatrali con le tecniche energetiche per portare le persone a scoprire i loro talenti e fare pace con delle parti di loro stessi. E’ un percorso di auto esplorazione. In sostanza io non ho niente da insegnare a nessuno, sono solo una buona accompagnatrice, il mio slogan è : ti faccio scivolare dentro di te con grazia. Tra le ambizioni c’è anche la circuitazione del nuovo spettacolo Lei non sa chi sono io, storie m’alate alla ricerca di sé, perché è uno spettacolo che in questo momento sento mio tantissimo, uno spettacolo che ho il profondo desiderio di condividere con gli altri.
Mi piacerebbe poi trovare qualcuno che mi aiutasse nella vendita degli spettacoli….faccio troppe cose da sola!
Ecco… lancio un appello! Vorrei che qualcuno mi aiutasse (pagando eh!) nella vendita degli spettacoli perché è una figura che in questo momento mi manca a livello professionale … la vendita non è proprio il mio mestiere.
Le mie ambizioni sono sostanzialmente quelle di continuare a stare bene con me stessa con gli altri e di fare quello che mi piace. Ce la sto facendo e sono convinta di poter continuare a farlo. Essere me stessa e aiutare gli altri ad esserlo.
David Robotti
Federica Sassaroli in “Il Risveglio”
Federica Sassaroli interpreta “Lola”
Recensioni & Interviste
Ciao Dario, ci mancherai moltissimo
Dario Fo era uno di quei personaggi che pensavi fossero immortali. Eri così abituato a vederlo lì, in televisione quanto in teatro, che nemmeno ti eri accorto che le primavere sulle spalle di quel Premio Nobel per la letteratura erano ormai 90. C0sì, quando quest’oggi è morto la notizia è stata presa come un vero e proprio pugno nello stomaco. Tanto dall’Italia quanto dal suo popolo. Discusso, discutibile, geniale e allo stesso tempo folle, Dario Fo aveva regalato svariati spunti di riflessione al nostro Paese. E ora che non c’è più tutti ne sentono già la mancanza. Noi lo analizziamo in sei punti svelandovi alcune curiosità sull’ultimo mostro sacro del teatro.
IL GRAMMELOT
La lingua reinventata da Dario Fo è il Grammelot, una parlata composta da una miscela di molti linguaggi e fortemente onomatopeica. In epoca storica questa lingua fu l’artificio recitativo utilizzato da giullari, attori itineranti e compagnie di comici della commedia dell’arte. Si usava recitare usando intrecci di lingue e dialetti diversi miste a parole inventate, affidando alla gestualità e alla mimica la comunicazione con il pubblico presente.
IL PREMIO NOBEL
Il 9 ottobre 1997 Dario Fo fu insignito del Premio Nobel per la letteratura, con la seguente motivazione: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Un premio che egli stesso volle condividere con tutte le donne e gli uomini di teatro, quel tipo di teatro che egli stesso ha contribuito a rendere particolare ed immenso.
LO STILE
Dario Fo caratterizzava le sue opere specchiando in esse la propria indole anticonformista, il proprio pensiero anticlericale. La sua grinta, la sua fame di verità e giustizia lo portavano ad esprimere anche sul palcoscenico una forte critica rivolta, attraverso lo strumento della satira, alle istituzioni politiche, sociali, ecclesiastiche e alla morale comune. Si oppose sempre ad ogni forma di potere costituito, ad ogni forma di di immobilismo e conservatorismo intellettuale.
MISTERO BUFFO
Nel 1968 insieme a Franca Rame, Massimo de Vita, Vittorio Franceschi e Nanni Ricordi fondò il gruppo teatrale Nuova Scena, con l’obiettivo di ritornare alle origini popolari del teatro ed alla sua valenza sociale. Anche in questo caso, le rappresentazioni avvenivano in luoghi alternativi ai teatri ed a prezzo politico. Il 1º ottobre 1969, a La Spezia, Dario Fo portò per la prima volta in scena, con grande successo, la “giullarata” Mistero Buffo; egli, unico attore in scena, recitava una fantasiosa rielaborazione di testi antichi in grammelot, traendone una satira tanto divertente quanto affilata. Nel caso specifico di Mistero buffo, il linguaggio utilizzato da Fo era una mescolanza dei vari dialetti della Pianura padana. Mistero Buffo tutt’oggi costituisce il modello di teatro di narrazione per eccellenza.
DARIO E FRANCA
Nel 1951 conobbe Franca Rame, figlia di una famiglia di teatranti girovaghi, bellissima, bionda, alta. “Aveva fuori dal teatro le macchine di ricconi che l’aspettavano. Io non ero nessuno, ero uno spilungone tutto orecchie, intimidito dalla sua bellezza e dunque casto. Allora un giorno lei mi prese dalle spalle, mi mise contro un muro e mi baciò. Lì iniziò tutto”. Si sposarono nel 1954. Dario Fo amava raccontare della sua straordinaria ed intensa esperienza di vita a fianco di Franca Rame affermando con dolcissima convinzione “Con Franca abbiamo vissuto tre volte più degli altri”
IL TEATRO, LA TV E LA CENSURA
La Rai democristiana di Ettore Bernabei, nel 1962 affidò alla coppia di artisti Canzonissima, lo spettacolo del sabato sera abbinato alla lotteria Italia simbolo della cultura mediatica nazional popolare di quegli anni. Dario Fo e Franca Rame presentarono brevi spettacoli a sfondo sociale, sulla corruzione e sul decadimento dei valori della politica e dell’alta società. I dirigenti e il politicizzato Cda della Rai reagirono a quello che venne definita una vera e propria offesa al pubblico italiano e chiesero il controllo dei testi prima della messa in onda. Dopo sette puntate Dario Fo e Franca Rame lasciano la trasmissione non volendo in alcun modo scendere a compromessi politici. Il clamore fu enorme, ma la Rai chiuderà loro le porte per oltre 15 anni, censurandone non solo gli spettacoli ma offuscando in ogni modo la loro immagine di professionisti di teatro. Fecero la loro ricomparsa in Tv nel 1977 con Il Teatro di Dario Fo, registrazioni degli spettacoli e dei monologhi che nel frattempo avevano raccolto grandissimi successi in tutto il mondo
David Robotti
Recensioni & Interviste, Teatro
Dario, prepotentemente Nobel
Il 9 ottobre del 1997 il drammaturgo e attore Dario Fo ricevette a Stoccolma dalle mani del re Gustavo di Svezia il Premio Nobel per la Letteratura, assegnatogli con la seguente motivazione: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi».
«Alla premiazione, seguì la rituale cena al Municipio, alle 19 in punto. I Nobel erano seduti nella grande tavolata centrale con 99 coperti. A me avevano assegnato un posto accanto alla principessa Cristina, sorella del re, appassionata di archeologia, con la quale mi fu facile trovare un feeling. Alla mia sinistra, la principessa Vittoria, che i media dicevano colpita da anoressia; in verità mi sembrava tutt’altro che inappetente… si era gettata con voracità sulle portate, tanto che le offrii la metà del mio risotto e lei lo accettò. Finita la cena, i Nobel erano invitati a brindare con il re e la regina, uno alla volta, mentre gli altri commensali si davano alle danze in un apposito grande salone. Franca (Franca Rame, la moglie, ndr) ed io pensavamo che fosse un saluto e via. Con nostra sorpresa invece, tanto il re che la regina ci trattennero, vollero sapere del nostro lavoro e dell’Italia, accennando perfino alla situazione politica di quel tempo. Il dialogo durò più del previsto. Lasciandoci, ci ripromettemmo di vederci ancora. Quindi ci ritirammo in disparte attendendo, come vuole il rituale, che tutti i Nobel e le loro consorti ultimassero l’incontro, giacché allontanarsi non si poteva e oltretutto le uscite erano bloccate dal servizio di sicurezza», ricorda Fo in un racconto. La serata si concluse con il secco richiamo all’ordine della moglie: «Come arriviamo a casa, ti ammollo un sonnifero che ti farà dormire per almeno un paio di giorni. Cammina, che la festa è finalmente terminata».
Il filmato, tratto dagli archivi della Rai, propone le immagini della consegna del premio, seguite da un’intervista del giornalista Vincenzo Mollica, alle cui domande Dario Fo risponde interamente in grammelot.
David Robotti
Recensioni & Interviste, Teatro
Dalla pubblicità al cinema. Il sogno di Yuri Buzzi
Attore, regista, modello e di recente anche scrittore. Sembra proprio che la dea dell’arte abbia baciato Yuri Buzzi per farlo diventare un artista completo con velleità importanti e difficilmente trovabili tutte insieme in un’unica persona. Nato a Vigevano il 26 settembre 1978, il suo debutto artistico risale al 2005 nella serie televisiva Il Giudice Mastrangelo. Sei anni dopo, decise poi di continuare a studiare recitazione all’estero presso l’Actor Centre di Londra. Successivamente ha lavorato con numerosi registi come Paul Feig (nel film Spy prodotto dalla 20th Century Fox), Jordan Scott, Peter Thwaites. Insomma un’attività intensa che l’ha visto nel 2011 sostituire nientemeno che George Clooney come testimonial mondiale per Martini & Rossi.
Questa collaborazione l’ha portato anche a lavorare come modello, affiancando personaggi del calibro di David Gandy e il designer Christian Louboutin. La gioia più grande è arrivata invece nel 2013 quando ha vinto come migliore attore il premio Dino De Laurentiis per la sua performance nel film Bibliothèque.
Domanda: Al suo debutto, nella fiction Il Giudice Mastrangelo il protagonista è un “mostro” sacro del nostro cinema: Diego Abatantuono. Raccontaci la tua esperienza al suo fianco.
Risposta: È stata la mia prima esperienza in Tv, Diego è una persona molto carismatica e ti mette a tuo agio sul set. Ricordo la forte energia positiva, le sue battute, una splendida cena con altri amici a Lecce ed un rientro in hotel cantando a squarciagola.
D: Quanto è stata importante l’esperienza formativa all’estero?
R: Ho studiato all’Actor Centre a Londra. Ritengo sia fondamentale per un attore il training ed il mantenersi in allenamento come uno sportivo sempre pronto alla prossima gara/casting. Nella mia carriera il training è stato d’aiuto nei momenti in cui non c’era molto lavoro, allenarti ed esercitarti con altri attori ti fa sentire meglio.
D: Attore in film e fiction ma ora anche modello in campagne pubblicitarie ci parli un po’ della tua carriera.
R: Io ho iniziato con le pubblicità insieme a un regista che stimo moltissimo (Alessandro D’Alatri, ndr) poi un po’ di Tv e l’avventura speciale nel momento in cui sono diventato il volto mondiale di Martini. Poi Londra e la mia agenzia creativa dove mi sto dedicando alla regia di pubblicità. Riguardo al cinema, l’anno scorso ho avuto il piacere di prendere parte ad un film americano SPY al fianco di Melissa McCarthy e Jude Law, diretto da Paul Feig.
D: Nel 2008 hai pubblicato La mia vita su di un cactus, un libro di poesie che contiene anche un monologo teatrale.
R: Una raccolta di 32 poesie e un monologo teatrale che tratta il tema del suicidio. Penso sia fondamentale condividere e parlare di questa parte un po’ più’ scura dell’anima e cercare di superare le avversità condividendole.
D: Come vede il suo futuro? Dietro a una cinepresa, su un palco di un teatro oppure alla scrivania a scrivere libri?
R: Il futuro saprà sicuramente quello che è meglio per me. Credo molto al destino e alla forza delle cose che accadono a prescindere. Per ora continuo a vivere tra palco, cinepresa e libri…
David Robotti
Recensioni & Interviste, Teatro
Giovanni, il papà di Cabiria (VIDEO)
Non tutti sanno che il primo grande kolossal della storia del cinema italiano, seppur appartenente al genere primordiale del film muto, ebbe come ideatore e regista un signore astigiano di nome Giovanni Pastrone. Nato a Montechiaro d’Asti il 13 settembre 1883 fu tra i pionieri del cinema del nostro Paese. Con un diploma in violino al Conservatorio di Asti e uno in ragioneria, Giovanni avrebbe potuto fare qualsiasi cosa nella sua vita. E in parte così fu. Ma ecco che dopo aver tentato diverse attività, nel 1903 si trasferì a Torino con la moglie per lavorare nell’orchestra del Teatro Regio come secondo violino.
L’APPRODO AL CINEMA
Nel 1905 entrò come semplice contabile nella casa cinematografica di cortometraggio Rossi & C. di Torino e grazie alla conoscenza di tre lingue straniere (francese, inglese e tedesco), Pastrone ottenne l’incarico di corrispondente. Nel 1907 ne divenne il direttore amministrativo e nel 1908 comproprietario con Carlo Sciamengo dando il via alla nuova casa di produzione Itala Film. Qui, dopo alcune prove di regia come La caduta di Troia (1911) e Padre (1912), realizzò nel 1914 Cabiria (firmato con lo pseudonimo di Piero Fosco e a lungo attribuito a Gabriele D’Annunzio, che in realtà si limitò a collaborare alle didascalie). Il film segnò un deciso progresso per la novità delle soluzioni narrative, delle tecniche impiegate e per l’impegno produttivo è forse il primo kolossal.
CABIRIA
Cabiria, sottotitolato Visione storica del terzo secolo a.C., è considerato il più grande e famoso film italiano del cinema muto. È anche stato il primo lungometraggio della storia a essere proiettato alla Casa Bianca. Girato prevalentemente a Torino negli stabilimenti sulla Dora Riparia e nelle Valli di Lanzo (con passaggi in Tunisia, Sicilia e Alpi), fu il più lungo film italiano prodotto dei suoi tempi (3.500 metri di pellicola per la durata di circa tre ore di spettacolo) e anche, di gran lunga, il più costoso. Per realizzarlo l’Italia Film spese un milione di lire in oro, a fronte del finanziamento medio per un film dell’epoca di cinquantamila lire. A stupire, fu anche la colorazione dato che la versione originale era virata a colori in dodici tonalità diverse, alcune di queste inedite. Il successo del film fu indubbio. Tutto merito della lungimiranza di Pastrone che, per il successo commerciale del film, decise di creare un prodotto che riunisse le esigenze di uno spettacolo popolare a quelle della cultura borghese.
Il tutto partendo da un suo soggetto che narrava le vicende di una fanciulla durante la seconda guerra punica, egli ricavò delle “scene” intervallate da didascalie “letterarie” per le quali volle al suo fianco come sceneggiatore Gabriele D’Annunzio, che accettò l’incarico per ripianare parte dei propri debiti, e che conferì alla storia una nobiltà altrimenti assente. E Fu proprio D’Annunzio a ideare il nome Cabiria, ovvero nata dal fuoco, e a volerlo come titolo della pellicola, in quanto nome della protagonista che il dio Moloch vuole sacrificare.
LA COLLABORAZIONE CON D’ANNUNZIO
Sebbene però l’intera sceneggiatura sia stata attribuita a Gabriele D’Annunzio, in realtà il poeta si limitò a inventare i nomi dei personaggi e a comporre le auliche didascalie. La redazione di questo libretto in una lingua alta «ha una serie di effetti notevoli: muta la struttura testuale, muta la forma dell’enunciazione, muta i singoli enunciati… Si intende promuovere il pubblico ad un tipo di esperienza privilegiata, assolutamente inedita rispetto ai suoi standard linguistici e non più fondata su una serie di dati di carattere informativo». Per quanto riguarda invece i soggetti utilizzati per la scrittura del film furono in gran parte tratti dai romanzi Cartagine in fiamme di Emilio Salgari e Salammbô di Gustave Flaubert. Il libretto di accompagnamento del film del 1914 recava una pregevole xilografia in copertina del pittore Adolfo De Carolis, con un cavallo azzannato da un lupo, simboli di Cartagine e Roma.
IL SUCCESSO
Buona parte del successo di Cabiria si deve allo spagnolo Segundo de Chomón, uno dei migliori operatori sulla scena europea, a cui Pastrone affidò la fotografia del film e che impiegò una vasta serie di effetti cinematografici: fu lui a utilizzare le lampade elettriche per ottenere effetti di chiaroscuro (per esempio nella scena del sacrificio) e ad architettare la sequenza dell’eruzione dell’Etna, di notevole realismo. Da un lato c’era un soggetto altamente popolare che alternava avventura e passione, storia e leggenda, coraggio e viltà, dall’altro una grande e spettacolare realizzazione cinematografica che faceva uso di tutti i mezzi tecnici disponibili all’epoca, compreso il sonoro del quale Pastrone intuì l’importanza.
Altra conquista, ampiamente sviluppata dal cinema successivo, fu l’intreccio in parallelo di più storie (in particolare tra gli eventi legati a Cabiria e la storia della guerra vera e propria). Il film inoltre si distingue per la straordinaria varietà delle riprese, sia in scenografie ricostruite (di cartapesta), che in esterni, come le Alpi e il deserto africano. Le invenzioni visive sono continue e ricchissime, dall’eruzione dell’Etna al drammatico sacrificio, dal sogno di Sofonisba all’incendio delle navi romane. Le riprese interne vennero girate a Torino e in esterno sul laghi di Avigliana dove venne ricostruita la città di Cirta, nei dintorni di Usseglio nelle Valli di Lanzo e nel Sahara algerino dall’estate del 1913 alla primavera del 1914 con una pausa durante l’inverno.
LA PRIMA
La prima ebbe luogo il 18 aprile 1914 al Teatro Vittorio Emanuele di Torino, in contemporanea col Teatro Lirico di Milano. Il film ebbe un grande successo di critica e di pubblico, sia in Italia che all’estero: restò in cartellone per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a New York. Il film fu una sorta di celebrazione della romanità, poco dopo la guerra italo-turca del 1911.
David Robotti
Recensioni & Interviste, Teatro
Daniela Tusa: «Aperto per cultura? Linfa per Alessandria»
Daniela Tusa, svizzera di nascita e tortonese d’adozione, attrice di teatro e di cinema, da sempre impegnata nel sociale e nelle scuole di teatro. Tra i suoi lavori, troviamo partecipazioni a film, fiction e cortometraggi a sfondo sociale, oltre chiaramente al teatro classico ed impegnato sui palcoscenici d’Italia ed Europa. Lei legata a doppio filo con Daniele Gol, oltre che a diverse realtà teatrali alessandrine, questa sera sarà una delle protagoniste indiscusse di Aperto per cultura l’evento che porterà per le vie del centro spettacoli teatrali e non solo.
Domanda: Come nasce la Daniela Tusa attrice che tutti noi conosciamo?
Risposta: Difficile dirlo (sorride, ndr). Sin da piccola adoravo, e l’adoro tuttora, Anna Magnani per la sua intensità recitativa. Ma in realtà non ho mai avuto un vero e proprio punto di riferimento. Io ho sempre amato l’arte nelle sue varie espressioni. Il mio è stato un percorso abbastanza frastagliato e abbastanza incostante. Indecisa tra la musica e il canto o il teatro. Varie vicissitudini e incontri che mi hanno spinto e ispirato a scegliere il palcoscenico e la recitazione. Ho abbandonato o per meglio dire ho messo nel cassetto le mie ambizioni musicali e mi sono dedicata a tempo pieno al teatro.
D: Come mai?
R: Per mentalità non sono portata a pensare ai percorsi artistici come hobby, non posso avere distrazioni ludiche. L’arte è una cosa seria.
D: Ci racconti il suo arrivo a Tortona.
R: Sono nata in Svizzera, i miei genitori sono originari di un paesino in provincia di Caltanissetta, ma vivo a Tortona dal 1979 ed è proprio qui che ben presto mi sono avvicinata al mondo della recitazione. Nel 1991 con Girolamo Angione in occasione dei 500 anni della scoperta dell’America si è cercato di fare uno spettacolo che riunisse tutti i ragazzi di una Tortona decisamente più viva e sensibile agli aspetti e alle prospettive culturali. Successivamente ho collaborato con i Pochi di Alessandria e poi mi sono iscritta alla scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova. La mia prima esperienza come attrice professionista è stata con Laura Bombonato per Le Serve, dopodiché ho avuto diversi ruoli nel mondo teatrale ligure e con diversi nomi importanti del teatro nazionale, come Gabriele Vacis ad esempio.
D: Da anni si occupa anche di scuola di teatro, ovvero di rendere disponibili le proprie competenze e le proprie passioni a chi si vuole avvicinare al mondo della recitazione.
R: Porto la mia esperienza alla scuola di Teatro de I Pochi ad Alessandria a cui partecipo come insegnante e come regista. Ora la compagnia ha messo su un’iniziativa del tutto nuova… Nuova per modo di dire perché nei decenni passati c’è sempre stata e ha scritto la storia del teatro in città e ancora in futuro la scriverà. Ora ex allievi e nuove figure nascenti stanno dando e daranno nuova vita alla scuola e alla compagnia per cominciare a fare nuove produzioni. Il primo appuntamento sarà a novembre con la rappresentazione de La visita della vecchia signora di Friedrich Dürrenmatt.
D: Ci parli del suo rapporto con il cinema, giusto per capire chi dei due ha cercato l’altro.
R: Il mio rapporto con il cinema è del tutto casuale. Facendo teatro si può incappare anche in questo. Ho avuto la fortuna di incontrare registi come Guido Chiesa che mi ha scelto per film tra i primi anni 2000 e fino al cortometraggio del 2014 destinato al progetto di una associazione che tratta di tossicodipendenza e della violenza che da essa scaturisce. Nel cinema destinato al grande pubblico e al box-office ho interpretato varie piccole parti. Ho lavorato con Antonello Grimaldi, Davide Marengo, Luca Ribuoli.
D: Ha lavorato con molti registi insomma, hanno identificato in lei un ruolo recitativo ben preciso?
R: Mi sono sempre divisa tra ruoli drammatici e ruoli comici. Guido Chiesa mi ha sempre pensato come attrice comica ma mi ha affidato ruoli drammatici. Daniel Gol mi da ruoli tipici della tragicommedia. Con Laura Bombonato ne L‘Avaro di Molière ho interpretato un ruolo maschile. Sono nata con un ruolo maschile… e ne vado fiera. Se fossi nata quando le donne non potevano recitare io avrei potuto recitare comunque (ride, ndr)
D: In occasione dell’evento Aperto per Cultura andrà in scena con La venditrice di bottoni. La sua intensità nella recitazione farebbe pensare ad una sua storia di vita vissuta.
R: Il testo, anche se potrebbe sembrare il contrario, non riguarda la mia infanzia. In ogni caso non sono io ad averlo scritto e neppure ispirato. Ma tutti i testi di Daniel Gol insistono sempre sul racconto universale. Il modo in cui è scritto, la sua poetica portano sempre il racconto ad un livello universale toccando pur sempre il particolare. Quando il racconto è universale finisce sempre per toccare l’individuo che ascolta e fa rientrare la storia nelle sue corde personali. Tutti hanno la possibilità di riconoscersi nelle cose che noi portiamo in scena.
D: La Venditrice di bottoni è parte integrante della nuova produzione di Teatrodistinto, Racconti d’amore in punta di piedi.
R: Racconti d’amore in punta di piedi nasce nell’ottobre del 2015 e lo abbiamo portato il 17 dicembre dello stesso anno al debutto al Teatro Civico di Valenza che ci ha dato la possibilità di provarlo e riprovarlo in varie dimensioni. Apportate alcune modifiche, a gennaio 2016 lo abbiamo portato a un nuovo debutto al Teatro delle Briciole di Parma dove abbiamo riscosso un grande successo di pubblico e di critica.
D: Aperto per Cultura cosa significa per lei?
R: Ho riflettuto molto su cosa stava succedendo ad Alessandria, soprattutto sulla vicenda del Teatro Comunale chiuso. Episodio molto negativo. Le persone, per vari motivi e uno di questi è senza ombra di dubbio è il modo di vivere una vita passata sui social, si è allontanata dal teatro, un luogo che deve essere visto come racconto, come narrazione della vita. Si è persa l’abitudine al teatro. Cinque anni di chiusura di una struttura come il Comunale sono un’intera generazione. Una generazione senza il teatro di Alessandria. Il racconto che è parte essenziale di questo mondo diventa quindi necessario come lo è sempre stato, un’esigenza vitale dell’uomo, è un nutrimento che si rischia di dimenticare. Ecco perché Aperto per Cultura è un’iniziativa molto bella che appoggio e che appoggerò sempre.
D: Sorge spontanea una domanda. Questo può aiutare a risollevare le sorti del teatro alessandrino?
R: C’è crisi in questo bellissimo mondo, non è più frequentato come prima e non solo ad Alessandria. In più se ci aggiungiamo la chiusura del luogo simbolo della recitazione l’abitudine e l’interesse si perdono più facilmente. Se la gente non viene più a teatro occorre portarlo tra le persone. Portarlo per strada. Motivazioni ed emozioni particolari per chi fa questo lavoro. Dobbiamo sforzarci tutti per ricordare ai cittadini che il racconto è fondamentale alla vita. Sono stata recentemente a Napoli e li le persone non perdono occasioni per raccontarsi le cose. Qui non è più cosi, ormai il pubblico è quello dei “mi piace” su Facebook. Altra cosa molto importante di questo evento è la collaborazione dei commercianti. Un bel rapporto che abbiamo instaurato e che ci ha consentito di “occupare” negozi sfitti e vetrine opacizzate dal tempo per poter riportare il teatro tra la gente, tra quel pubblico che è parte fondamentale della vita e della sopravvivenza di questo mondo e non solo.
D: Durante questa nostra chiacchierata ho potuto toccare con mano la sua simpatia e la sua genuinità per cui mi permetto di farle una domanda di ben altro spessore e che le sembrerà banalissima. Nata in Svizzera da genitori siciliani, quindi… tra cioccolato e cassata cosa sceglierebbe?
R: Banalissima? Veramente le confesso che è la domanda più difficile che mi abbiano mai fatto in tutti questi anni. No, no!!! Io non posso scegliere. E poi perché dovrei scegliere? Io non posso vivere senza il cioccolato esattamente come non posso rinunciare ai cannoli e alla cassata siciliana. Mettiamola così quando mi trovo al Nord mi affogo nel cioccolato, da Napoli in giù nella ricotta.
David Robotti
Recensioni & Interviste, Teatro
Intervista a Ombretta Zaglio
Ombretta Zaglio, autrice, attrice, regista, cantastorie. Si laurea in lettere nel 1981 con una tesi sulla fiaba tradizionale privilegiando gli studi di psicologia sociale e psicologia dell’età evolutiva.
Parallelamente, a partire dal 1978 – è coofondatrice del Teatro del Rimbalzo con il quale lavora nel settore di teatro ragazzi e giovani.
Intraprende la formazione teatrale sotto la guida di diversi maestri: Gino Zampieri, Marcello Bartoli, Keras Manis, Susanne Martinet, Anna Sagna, Roy Art Theatre, R. Cieslak e con il teatro di J.Grotowsky, nel 1985 con il regista belga Tierry Salmon affrontando uno studio sui personaggi della mitologia greca, nel 1987 con il regista Mario Martone per una produzione su W. Majakoski , nel 1997/1998 riprende la formazione con Mamadou Dioume e Tapa Sudana attori di molte delle produzioni di Peter Brook.
Al linguaggio teatrale si aggiungono esperienze nel campo degli audiovisivi, in questi anni nascono collaborazioni con musicisti e artisti visivi e dal 1985 è anche autrice e regista degli spettacoli della compagnia.
Il lavoro teatrale, svolto con il gruppo o con collaborazioni esterne piuttosto che da ‘solista’, abbraccia molte esperienze rivolte alla scuola e agli adulti: spettacoli, performance, installazioni, con particolare attenzione allo spazio della rappresentazione e al rapporto con lo spettatore, laboratori, corsi di aggiornamento, ideazione e organizzazione di rassegne, progetti speciali legati al territorio. Dal ’90 al ’94 ha ideato e condotto La Casa di Teatro di via Venezia n. 5 ad ALessandria , sede della compagnia, persa durante l’alluvione.
Nel 1994 l’alluvione, e le conseguenti perdite, impongono una svolta forzata: il repertorio di fiabe, leggende, racconti, si coniuga con la figura della narratrice e della cantastorie con accompagnamento musicale dal vivo.
Nascono Contafiabe, Leggenda di Aleramo, Alluvionata con i quali per la prima volta è presente anche a rassegne di teatro di strada italiani e francesi oltre che a festival medioevali.
Domanda – Narratrice, cantastorie ma hai sempre inserito nei tuoi spettacoli l’elemento musicale…lo hai fatto per avere un contorno alle tue narrazioni oppure lo ritieni un aspetto fondamentale?
Risposta – Il rapporto con la musica per me è sempre stato un rapporto entusiasmante. Non posso pensare ad una mia rappresentazione teatrale senza musica…ma non la musica da tappeto… quando le strutture dove mi esibisco lo permettono io voglio la musica dal vivo. L’esperienza con i musicisti e sempre una esperienza arricchente sia sotto l’aspetto emozionale sia sotto l’aspetto professionale.
D – Oltre all’elemento musicale tu dai sempre un notevole risalto alle immagini.
R – Ho sempre pensato che le immagini fissino nelle mente del pubblico le parole del narratore. Una sorta di associazione di parole immagini che ricalca un poco le nostre azioni nei primi anni della nostra vita. Sto portando avanti ricerche nell’ambito del digital story telling (narrazione in ambiente), multimediale dove la parola amplifica il suo senso combinata alle immagini.
D – La Casa del Teatro ad Alessandria…
R – Eh beh… una bella spina nel cuore… Con l’alluvione del novembre 1994 è andata completamente distrutta e con essa tutti i progetti di ricerca che avevamo in seno. Tu David, c’eri, l’hai vista…eravamo più di 700 soci, era la nostra casa. Non siamo più riusciti neppure a rientrarci per pulire, recuperare le poche cose. Rimase solo una scritta rossa che troneggiava all’ingresso «La cultura fa sapere dal suo presidio, per gli artisti né spazio né sussidio». Io non avendo avuto neppure un centesimo di risarcimento danni ho dovuto ricominciare da zero, andando in giro a raccontare fiabe. Non so bene se in ricordo di quella triste vicenda oppure come monito scaramantico per il futuro, ho scritto anche una cantastoriata che si chiama Alluvionata.
D – La tua scelta obbligata di ricominciare da te stessa e nulla più di ha portato ad affrontare nuove esperienze, nuovi stimoli, molto lavoro ma anche parecchie soddisfazioni.
R – Vero, il mio ricominciare da zero mi ha portato ad avere esperienze fuori dalle mura della mia, della nostra casa di teatro. Ho conosciuto attori e musicisti che poi sono diventati in molti casi i miei punti di riferimento, luoghi incantevoli che mi hanno ispirato. Ho smesso di essere per cosi dire la cenerentola della situazione. In quegli anni ho ricevuto a Certaldo, in Toscana, il Premio come Cantastorie dell’Anno durante una edizione del festival “Mercanzie” . Nel 2004 con Un cappello Borsalino ho vinto il Premio Stregagatto dell’Ente Teatrale Italiano come migliore attrice e migliore spettacolo per giovani, una sensazione straordinaria per chi come me è legata alla storia e alla tradizione alessandrina.
D – La tua carriera di cantastorie della tradizione ti ha portato anche all’estero?
R – Raramente ho partecipato a rassegne fuori dai confini nazionali. Il mestiere di cantastorie della tradizione trova soprattutto il limite della lingua. In Francia ho portato con buon successo la Leggenda di Aleramo che avevo tradotto in francese, poi nella Svizzera tedesca ho portato il Mattia Zurbriggen, la storia de una guida alpina, narrato in dialetto ma compreso benissimo dal pubblico che avevo di fronte. L’abilità del narratore è anche quella di tarare il pubblico a cui ti vai a proporre.
D – Quali sono i progetti a cui stai lavorando?
R – Più che progetti di nuove produzioni ora sto portando avanti situazioni già ben delineate in questi ultimi anni, ovvero il Teatro Ragazzi, con la narrazione multimediale Biancaneve e le Fiabe di Calvino Rana Rana. Dopo l’estate poi ricomincerò con i corsi di formazione sui linguaggi teatrali che ho chiamato La palestra delle emozioni dove esattamente come in un allenamento sportivo alleno le persone , bambini e adulti a riconoscere le emozioni che proviamo ogni giorno nella nostra vita, corsi sull’espressione corporea, sul racconto, sulla voce e sul gioco del teatro.
David Robotti
Recensioni & Interviste, Teatro
Intervista a Silvia Zambrenti
La compagnia Teatrino di Zumpappà nasce nel maggio del 2004, esordendo a Bucarest (Romania) alla Festa internazionale del bambino. In seguito parteciperà a diversi festival e rassegne di teatro di figura e teatro di strada tra cui “Immagini dall’interno” Pinerolo-TO, “Effetto Venezia”, Livorno, “S.Giacomo Puppet Festival”, Torino, “Festival Internazionale di Teatro di Burattini e Figure”, Colle Umberto-TV , “Mercantia”, Certaldo, ecc…
Le tecniche utilizzate dal Teatrino Zumpappà spaziano dal tradizionale burattino a guanto, alla poetica marionetta a fili, al critico muppet in gommapiuma, all’ecologico pupazzo in carta di e scotch e recentemente alle oniriche silhouettes del teatro di ombre.
Silvia Zambrenti, creatrice della compagnia, nasce e rimane a Verona fino ai 17 anni per poi cominciare il suo interminabile viaggio tra est, ovest, nord e sud. Tra Licei Artistici, Accademie di Belle Arti, Corsi di formazione professionali per burattinai, stages in costruzione, animazione e messa in scena di marionette e burattini..
Domanda – Lei è burattinaia, scenografa, “cenografa”, scultrice, pittrice… ci racconti un po’ di lei.
Risposta – Mi sono laureata in scenografia nel 2000 con un lavoro che mi ha entusiasmato sulle fiabe italiane raccolte da Italo Calvino. 15 fiabe che ho illustrato con il cibo, e che per questo ho chiamato CENOgrafie…. Ognuna di queste piccole ambientazioni veniva fotografata ed infine infornata e condivisa con amici commensali. Quindi non solo l’occhio ma anche il palato ne godeva!!
Successivamente, durante un’esperienza lavorativa a Barcellona in un laboratorio scenografico, un colpo di fulmine o forse una bastonata di burattino mi ha fatto innamorare del teatro di figura.
Finalmente un posto, il teatrino, in cui mettere tutte le mie passioni: la scultura (per le teste dei burattini), la pittura (per le scenografie) e il viaggio..forse la mia più grande passione!!!
Purtroppo ai nostri giorni non è più così facile fare gavetta da un burattinaio, come si faceva un tempo, cosicché ho imparato l’arte lungo il corso di un anno in una scuola di formazione per burattinai…
Chiaramente la vera esperienza è stata successiva, Sia sul campo, o meglio sulla strada, sia attraverso la conoscenza di molti altri burattinai… Ognuno mi ha lasciato un piccolo pezzettino della sua conoscenza…
Ho inoltre seguito per un po’ di tempo le lezioni all’università di Bucarest nella sezione marionette e burattini, essendo all’est ancora molto forte la tradizione dei papuši (marionette).
Devo dire che una parte molto importante della mia formazione l’ho ricevuta a Silvano d’Orba grazie a laboratori tenuti da veri professionisti nel campo del teatro di figura. Laboratori organizzati dalla compagnia del Teatro del Corvo.
D – Ho avuto il piacere di vederla con la sua compagnia (Il Teatrino di Zumpappà) a Silvano D’Orba quando avete vinto il “Premio Teatro Silvano 2013”. Un’emozione unica per bambini dai 4 ai 94 anni, come qualcuno ha scritto. Cos’è il Teatrino di Zumpappà?
R – Teatrino di Zumpappà è il teatrino con cui feci il primo spettacolo, in Romania, dove il burattino protagonista era per l’appunto Zumpappà, una sorta di Pulcinella.
Il nome è poi è rimasto sempre quello anche se durante gli anni varie persone hanno collaborato alla creazione degli spettacoli.
Nel caso del premio di Silvano d’Orba collaborava con me una ragazza di Genova, Arianna Musso, con cui abbiamo lavorato intensamente per la realizzazione dello spettacolo Il pinguino innamorato.
D – E Cirillo?
R – L’ultima realizzazione è uno spettacolo con marionetta a filo, Cirillo, piccolo elfo ma grande ballerino. Lo spettacolo è senza parole ma con suoni e rumoristica dal vivo, realizzati da Cristian Lo Re, musicista della compagnia dal 2006.
Lo spettacolo narra della scoperta di un mondo sonoro da parte di questa delicata e simpatica marionetta chiamata Cirillo per terminare con un ballo sfrenato, la sua vera passione!!
David Robotti