Teatro, Un po' di storia...
Buon compleanno al Teatro dell’Archivolto di Genova
Avere 30 anni e non sentirli. Vero, non una grande età, soprattutto per un teatro. Strutture solitamente imponenti e dalla grande storia. Eppure questo è un passo davvero importante per il Teatro dell’Archivolto. Occorre infatti consultare gli almanacchi teatrali del 1976 per risalire alle sue origini. L’idea fu di un piccolo gruppo di giovani che si dilettavano a portare in scena il cosiddetto teatro d’avanguardia, in alternativa al repertorio del teatro di tradizione e al teatro classico. Oriano Rigato, Eugenio Buonaccorsi e Mario Menini, ottennero in affitto il quattrocentesco refettorio delle monache dell’ex convento di Santa Brigida, in via Famagosta, alle spalle di via Balbi, nel centro storico di Genova.
LA RIVALUTAZIONE
I locali del convento, dopo l’abbandono delle monache nel 1797, avevano avuto per quasi due secoli varie destinazioni d’uso. Nemmeno a dirlo che la struttura versava in cattivo stato di manutenzione e venne restaurato e adattato alle minime esigenze strutturali di un teatro. Gli si diede il nome di Archivolto per omaggiare appunto un antico archivolto sopravvissuto ai restauri, attraverso il quale si accedeva al teatro. La prima rappresentazione andata in scena fu Le nozze dei piccolo borghesi di Bertolt Brecht, diretto dal regista e scenografo Marco Parodi. Successivamente andarono in scena Il borghese gentiluomo di Molière, diretto e interpretato da Carlo Cecchi e il monologo Sta per venire la rivoluzione e non ho niente da mettermi di Livia Cerini e Umberto Simonetta. Con la successiva stagione il Teatro dell’Archivolto diveniva una vera e propria compagnia teatrale.
DAL VECCHIO AL NUOVO
Nel 1985 il nucleo originario del Teatro dell’Archivolto si sciolse ma la compagnia venne rifondata nel 1986 da Pina Rando, che ne assunse la direzione e da Giorgio Gallione nel ruolo operativo di regista. La storia in effetti racconta che invece vennero formate due distinte compagnie: una, costituita dai Broncoviz, quintetto comico specializzato nella satira e nella parodia, formato da giovani attori che si sarebbero in seguito affermati in campo nazionale (Marcello Cesena, Maurizio Crozza, Ugo Dighero, Mauro Pirovano e Carla Signoris); la seconda, impegnata in spettacoli rivolti ai più giovani, era inizialmente formata da Gabriella Picciau e Giorgio Scaramuzzino. Negli Anni ’90 il Teatro dell’Archivolto propose il restauro del teatro Gustavo Modena di Sampierdarena, unica sala ottocentesca sopravvissuta a Genova, chiuso da alcuni anni, creando nei suoi locali la propria sede.
IL GUSTAVO MODENA
L’antico Teatro Gustavo Modena, situato nel quartiere genovese di Sampierdarena venne edificato nel 1856 al fine di poter ospitare rappresentazioni liriche e di prosa. Intitolato al patriota e attore teatrale Gustavo Modena l’edificio si affaccia sulla piccola piazza omonima, tra via Buranello e piazza Vittorio Veneto. La costruzione del teatro fu avviata nel 1856, grazie al finanziamento dei maggiori esponenti della borghesia industriale e mercantile sampierdarenese. Venne edificato su progetto dell’architetto Nicolò Bruno su un terreno adiacente alla villa Centurione “del Monastero”. L’inaugurazione del nuovo teatro ebbe luogo il 19 settembre 1857 con una rappresentazione dell’opera Tutti in maschera di Carlo Pedrotti. Dotato di un’ottima acustica, visse un periodo di grande splendore nell’Ottocento, ospitando spettacoli di lirica e prosa delle maggiori compagnie dell’epoca. Nel Novecento, pur continuando ad ospitare in scena le più importanti compagnie teatrali e più celebri artisti del tempo, vide avvicinarsi l’ombra cupa del declino. Venne operato un primo restauro nel 1920 per mano di Raffaele Bruno, nipote del progettista e fu riaperto il 23 dicembre 1923 con una rappresentazione della Carmen di Bizet, ma dal 1936 fu utilizzato prevalentemente come sala cinematografica.
L’EDIFICIO
La facciata, in stile neoclassico, ha cinque porte ad arco, di cui le tre centrali unite da un avancorpo con terrazzo, aggiunto nel restauro del 1920, sormontato da quattro semi-colonne ioniche che sorreggono il timpano triangolare che corona in alto la facciata. L’interno è caratterizzato da una grande sala a ferro di cavallo, circondata da tre ordini di palchi oltre al loggione che oggi on è aperto al pubblico; oggi può contenere complessivamente 498 spettatori, di cui 349 in platea e i restanti nei 74 palchi. La decorazione della volta è costituita da affreschi di Nicolò Barabino, in parte andati perduti e sostituiti da riproduzioni in tela sovrapposte all’intonaco del soffitto.
Dal 2001 al teatro è annessa una sala, denominata Sala Mercato, ricavata dal recupero dell’adiacente edificio che aveva ospitato dal 1905 fino agli anni novanta il mercato ortofrutticolo comunale. Questa moderna sala teatrale può contenere fino a 300 spettatori ed ospita anch’essa attività del Teatro dell’Archivolto. Dal 1986 il Teatro dell’Archivolto ha prodotto più di cento spettacoli, oltre all’organizzazione di convegni e rassegne e la partecipazione a festival.
David Robotti
Teatro, Un po' di storia...
Teatro Carignano di Torino
Il Teatro Carignano di Torino è uno dei più begli esempi di teatro all’italiana e allo stesso tempo uno dei luoghi simbolo della Città. La genesi della sala teatrale trae origine dall’importante progetto di trasformazione ed espansione della Torino tardo cinquecentesca, esigenza sorta dalla necessità, da parte della casata Savoia, di accreditarla come moderna capitale, affrancandola definitivamente dall’angustia e dalla modestia architettonica lamentate, tra gli altri, da Montaigne. L’ascesa al trono di Vittorio Amedeo II (1684) e la sua successiva designazione a re di Sicilia accompagnano l’arrivo di Filippo Juvarra che apre la struttura dei palazzi e della vie cittadine a un respiro urbanistico inedito: suo allievo è Benedetto Alfieri, zio di Vittorio, che ne prosegue la visione nel riassetto del centro, un’opera grandiosa che coinvolge anche gli spazi dedicati allo svago del sovrano e dei nobili. Il Teatro Carignano si inserisce a pieno titolo in questo contesto: nel 1710 il principe Vittorio Amedeo di Carignano fa adattare a teatro il salone secentesco chiamato Trincotto Rosso, un edificio utilizzato per il gioco della pallacorda, facendo costruire 56 palchetti e destinandolo a sala di spettacolo: solo dopo il passaggio alla Società dei Cavalieri nel 1727 lo spazio si apre a prosa, canto e balletti. Nella stagione 1752-53 su richiesta del Principe Luigi Vittorio di Carignano l’architetto regio Alfieri ricostruisce il teatro dalle fondamenta, riproponendo una versione ridotta della pianta del Teatro Regio. Il teatro viene inaugurato per la Pasqua del 1753 con la Calamita dei cuori di Carlo Goldoni, musicata da Baldassarre Galluppi.
L’incendio del 16 febbraio 1786 impone una nuova ricostruzione su progetto di Gian Battista Feroggio con quattro ordini di palchi. Divenuto proprietà del Comune di Torino nel 1870, nel 1885 viene rivisto dall’architetto Carrera, che chiude il porticato con un ammezzato per la realizzazione di uffici, la trasformazione del quarto ordine di palchi in galleria, e la creazione di una sala sotterranea prima destinata a birreria e poi (1903) a sala cinematografica, una delle prime della città. Risale al 1977 la cessione definitiva alla Città, che lo affida al Teatro Stabile di Torino. Nella primavera del 2007 sono stai avviati gli ultimi e più importanti lavori di ristrutturazione, completati nel 2009, con i quali sono stati ripristinati gli originari ingressi del teatro, l’antica birreria sotterranea che diventa il foyer della struttura, la risistemazione generale degli arredi e degli impianti di sala e di palco: il Teatro Carignano si è trasformato in una delle sale storiche più modernamente attrezzate per lo spettacolo dal vivo del nostro Paese.
Lo spettacolo scelto per la riapertura al pubblico è stato Zio Vanja di Anton Čechov, per la regia di Gabriele Vacis.
Il teatro Carignano di Torino è stato usato per ben due volte da Dario Argento come set di una scena di un suo film: la prima volta nel 1975 per Profondo rosso (scena del congresso di parapsicologia) e la seconda volta nel 2001 per Non ho sonno (scena dell’omicidio della ballerina)
Gli attori, i registi e drammaturghi che hanno calcato il palcoscenico del Teatro Carignano sono numerosissimi e percorrono la storia della sala fin dalla sua fondazione, a partire da Carlo Goldoni. È al Carignano che nel 1762 il tredicenne Vittorio Alfieri assiste per la prima volta a uno spettacolo ed è sempre qui che nel giugno 1775 debutta con la sua prima tragedia. Negli anni della Restaurazione, dal 1821 al 1855, il Carignano è la sede ufficiale della Compagnia Reale Sarda, costituita sul modello della Comédie Française e considerata la più illustre antenata degli attuali teatri stabili.
Il Novecento si apre al Carignano con numerose prime rappresentazioni, tra cui Il matrimonio di Casanova di Renato Simoni (1910), Il ferro di Gabriele D’Annunzio (1914), Le nozze dei Centauri di Sem Benelli (1915) e soprattutto Il piacere dell’onestà dell’allora dell’emergente Luigi Pirandello. In quegli anni il teatro è frequentato in veste di cronisti teatrali dai giovani Antonio Gramsci e Piero Gobetti. Dal 1961 lo storico teatro settecentesco ospita i maggiori spettacoli realizzati dallo Stabile di Torino. L’elenco degli artisti ospitati dalla sala di piazza Carignano è interminabile, a partire dai maggiori protagonisti della scena italiana.
Un ultimo ricordo memorabile: nel 2007 il premio Nobel Harold Pinter, in una delle sue ultime uscite pubbliche, riceve il Premio Europa per il Teatro in un Carignano gremito e commosso.
David Robotti
Teatro, Un po' di storia...
Il Teatro Carlo Felice di Genova
Genova possiede uno dei teatri più noti d’Italia, il teatro Carlo Felice . Vi si tengono la stagione d’Opera Lirica e Balletto e la Stagione Sinfonica, concerti ed eventi di vario genere.
Il teatro si erge nel pieno centro della città, a lato della centrale Piazza De Ferrari.
LE ORIGINI
Nel 1825 venne indetto un concorso per il disegno di un nuovo teatro dell’opera. Il 21 gennaio 1826, vennero pubblicati sulla Gazzetta di Genova il progetto dell’architetto genovese Carlo Barabino, le norme per l’appalto del teatro e indicazione precise sull’area che doveva occupare.
Dopo poco più di due anni di lavori Il teatro venne inaugurato il 7 aprile 1828, alla presenza dei sovrani del Regno di Sardegna, Carlo Felice e della regina Maria Cristina di Savoia, con la rappresentazione dell’opera di Vincenzo Bellini Bianca e Fernando su libretto del genovese Felice Romani con Adelaide Tosi, Giovanni David ed Antonio Tamburini.
La decisione di costruire un teatro da intitolare a Carlo Felice di Savoia era stata presa appena pochi anni prima la sua edificazione, ovvero fra il 1824 e il 1825. A tale decisione i governanti dell’epoca giunsero in considerazione del fatto che i teatri allora presenti fossero decisamente insufficienti.
Genova non aveva ancora un vero e proprio teatro per il melodramma, molto di moda all’epoca, e fu così che la città decise di dotarsene di uno che potesse competere, sul piano dell’eleganza, con quelli allora presenti in tutta Italia. Fino ad allora in Genova il teatro più frequentato era stato quello di Sant’Agostino, dei Marchesi Durazzo, in legno, del secolo precedente e ormai non più adatto ai tempi. La costruzione avvenne su un terreno che in passato aveva ospitato un convento che era stato successivamente abbattuto.
Il 12 maggio 1828 avviene la prima assoluta di Alina, regina di Golconda di Gaetano Donizetti con Giovanni Battista Verger, Tamburini e Giuseppe Frezzolini.
Nel nuovo Teatro Carlo Felice nel 1852 viene inaugurata l’illuminazione a gas, e nel 1892, per le celebrazioni colombiane, l’illuminazione elettrica.
IL NOVECENTO
Durante la seconda guerra mondiale il Carlo Felice venne colpito due volte rimanendo parzialmente distrutto. Erano andati distrutti i solai e le parti in carpenteria del teatro, palchi e le soffittature, erano rimasti in piedi solo i muri perimetrali.
Terminata la guerra, nel 1946 si decise di dare inizio alla ricostruzione del teatro ma fino ai primi anni ottanta non si ebbe un progetto esecutivo e finalmente realizzabile.
Nel frattempo ciò che rimaneva dell’antico teatro venne demolito, lasciando in piedi il pronao neoclassico ed i portici del perimetro esterno; tali elementi sono stati in seguito preservati.
Il 7 aprile 1987 fu posata la prima pietra del nuovo teatro. Nel 1991 la struttura venne finalmente inaugurata e restituita alla città di Genova nello splendore con cui oggi possiamo ammirarla.
David Robotti
Teatro, Un po' di storia...
Teatro Alfieri di Asti
Il Teatro Alfieri è il teatro più importante di Asti. Fondato nel 1860 da azionisti privati, dal 1940 è di proprietà della città diventando sede di importanti manifestazioni e rappresentazioni teatrali, musicali e liriche. Il teatro è strutturato su tre parti principali: la platea, la barcaccia e i palchi, con un palco centrale di rappresentanza. Il Teatro Alfieri si trova nella parte storica della città, nelle immediate vicinanze del Palazzo civico. A partire dal 1979 è stato oggetto di estesi lavori di ristrutturazione completati nel 2002 con un attento lavoro di recupero del progetto originale che ha restituito storicità all’edificio, facendone una struttura moderna e funzionale.
L’OTTOCENTO
Il nuovo Teatro Sociale venne edificato tra il 1858 e il 1860. A volere la sua costruzione fu la borghesia che grazie alla sottoscrizione di 97 azionisti privati portò avanti quell’ambizioso progetto. Il Teatro Sociale divenne così il simbolo del ruolo che la nuova borghesia urbana, cui era preclusa la partecipazione all’attività del vecchio Teatro San Bernardino sito sull’attuale area del Castello di Piazza Roma, esercitava ormai nella vita e nella cultura della città. La necessità di un nuovo e più moderno teatro non era determinata soltanto dalle ambizioni della borghesia astigiana, che vedeva nella proprietà di un palco una manifestazione tangibile del nuovo status sociale, quanto dall’esigenza di avere in città un teatro capiente, funzionale e in grado di attirare le grandi rappresentazioni liriche dell’epoca.
Nel 1858, così, dopo vari tentativi da parte pubblica e privata di costruire un nuovo teatro, il banchiere Zaccaria Ottolenghi costituì una apposita società e individuò una nuova area sulla quale edificare la moderna struttura. La sua iniziativa trovò aperta ostilità da parte del Sindaco che, pur non potendo rifiutare la licenza, dichiarò: «Se il Signor Zaccaria riesce a costruire il suo teatro sono pronto, la sera dell’inaugurazione, a mangiarmi il primo scalino dell’ingresso». Venne quindi bandito un concorso cui parteciparono numerosi professionisti. Alla fine fu prescelto il progetto dell’Ingegnere Domenico Svanascini, ispirato al Teatro Carlo Felice di Genova. Si trattava di una costruzione a ferro di cavallo per una capienza di 2050 spettatori, con 103 palchi su quattro ordini, più un loggione. Vennero chiamati a contribuire all’opera alcuni tra i più noti artisti del tempo. Costantino Sermo venne incaricato degli affreschi del Ridotto, il cui soggetto rappresenta la caduta di Fetonte; Francesco Gonin, pittore fra i più celebri dell’epoca, vennero affidate le decorazioni del soffitto, ovvero le Muse e le Arti che scendono ad ingentilire l’umanità, nonché il sipario, rappresentante l’apoteosi di Vittorio Alfieri.
In soli due anni il Teatro venne progettato ed edificato, con tanto di inaugurazione il 6 ottobre 1860 con la rappresentazione del Mosè di Rossini e con il balletto Enrico IV Re di Svezia, musicato da Enrico Bernardi. La mattina dell’inaugurazione l’ineffabile Zaccaria Ottolenghi fece recapitare al Sindaco una lastra di pietra identica ai gradini dell’ingresso del Teatro, con gli auguri di buon appetito.
IL NOVECENTO E I NOSTRI GIORNI
Il teatro visse stagioni di intensa attività assumendo un ruolo di primaria importanza nella vita cittadina tanto da spingere i soci a offrire la proprietà al Comune. Si avvertiva la pressante necessità di trasformare il teatro in un luogo più rappresentativo della società astigiana, un luogo di crescita culturale piuttosto che la sanzione del rango di poche famiglie. Dopo un vano tentativo nel 1903, nel 1911 la trasformazione del teatro venne affidata all’Ingegnere Antonio Vandone, che trasformò radicalmente lo stabile, eliminando l’ultimo ordine di palchi per realizzare una vasta galleria. Altri 17 palchi centrali del terzo ordine divennero anch’essi una galleria e diversi palchi del secondo ordine vennero uniti ad altri per realizzarne di più capienti, ampliando anche il Foyer, che secondo il progetto, doveva essere l’inizio di una via porticata.
Il lavoro elaborato dal Vandone non era però dettato solo da esigenze culturali. Per il progettista la trasformazione della disposizione dei palchi, che alcune teorie consideravano anti acustici, avrebbe attribuito al teatro astigiano una migliore sonorità. A questo si deve aggiungere la realizzazione della buca per l’orchestra che avrebbe creato quel distacco spirituale necessario per separare il reale dall’ideale nel corso delle rappresentazioni. Un teatro così rinnovato divenne, ancora di più, punto di riferimento e sede prestigiosa per gli artisti di fama nazionale e internazionale.
La riapertura avvenne però solo il 26 ottobre 1912 con l’opera Isabeau di Piero Mascagni, interpretato da Aureliano Pertile, e con Andrea Chenier di Giordano. Mentre nel 1915, nonostante corresse il primo anno di guerra, il teatro vide, subito dopo la prima a Torino, la proiezione del film capolavoro del registra astigiano Giovanni Pastrone, Cabiria. Nel 1935 il Senatore Giovanni Penna incominciò un lungo lavoro di acquisizione delle quote azionarie di proprietà dei palchettisti nel tentativo che la struttura diventasse esclusiva proprietà della Città di Asti. Questo avvenne, con deliberazione podestarile, il 10 febbraio 1940 quando lo stabile del Teatro Alfieri divenne definitivamente proprietà comunale. Seguirono anni di affidamento della gestione del teatro a privati che l’usarono soprattutto come sala cinematografica o sala danze, avviandolo verso un lento declino. Questo nonostante dal suo palco fossero passate grandi compagnie teatrali e i più famosi nomi del tempo, Tommaso e Gustavo Salvini, Zacconi e Novelli, la Melato, Gassmann, Salerno e la Proclemer.
Con gli anni si resero necessari importanti lavori di adeguamento strutturale. A partire dal luglio 1976, anche in considerazione della grande importanza che la cultura assunse in quel periodo dal punto di vista economico-sociale, il Teatro Alfieri venne assunto direttamente in gestione dal Comune di Asti e sottoposto, a partire dal 1979, a estesi lavori di restauro. L’edificio riaprirà solo il 24 giugno 2002, dopo 22 anni di lavori e diversi progettisti. Nel 1995 l’Architetto Paolo Ercole aveva portato a termine la Sala Pastrone, piccola sala sotterranea per spettacoli teatrali e rappresentazioni cinematografiche, nonché la ricostruzione del Ridotto e degli uffici. L’Architetto Luciano Bosia, invece, con un attento lavoro di recupero del progetto originale, restituì autenticità storica all’edificio, facendone anche una struttura moderna e funzionale.
David Robotti
Un po' di storia...
Il Teatro Municipale di Casale Monferrato
Il Teatro Municipale di Casale Monferrato è un edificio in classico stile Impero situato nella centralissima Piazza Castello. Non si tratta del primo Teatro cittadino dato che un edificio comunale sorgeva già nello stesso luogo di quello attuale all’inizio del Seicento. Questa antica struttura era chiamata il Trincotto. Al suo interno, nel 1611, avvenne la prima assoluta di Il rapimento di Proserpina di Giulio Cesare Monteverdi. Questo primo edificio fu poi completamente trasformato nel 1673, anno in cui vennero aggiunti gli spalti. Nel 1697, però, il teatro fu chiuso per difficoltà di gestione, per essere ricostruito interamente in legno. Commissionato nel 1780 da alcuni nobili casalesi all’abate architetto Agostino Vitoli, il Teatro Municipale sorse dove esisteva l’antico Trincotto. L’edificio verrà inaugurato solo nel 1791 con un’opera inedita: La moglie capricciosa di Vincenzo Fabrizio.
LA STRUTTURA
La sala principale è un autentico gioiello architettonico (pianta a ferro di cavallo, classico esempio di teatro all’italiana) ed è costituita da una platea e da quattro ordini di palchi più loggione, con parapetti intagliati e dorati tra cui spicca al centro quello reale. L’organismo architettonico progettato da Agostino Vitoli, definito genericamente neoclassico, presenta in realtà un proprio stile nel volume dilatato in lunghezza e nella netta semplificazione degli elementi classico-romani. L’interno è un capolavoro di armonico incontro tra ordine e leggera festosità decorativa: effetti settecenteschi, né pesanti né sfarzosi, convivono con particolari tipicamente neoclassici, con le geometrie nette di raccordo. «L’arte è un sogno fatto in presenza della ragione». La definizione diffusa nel secondo Settecento dal Bettinelli si addice particolarmente al ritmo suggestivo e ordinato del Teatro.
Un ritmo che trova rispondenza anche nella sua ubicazione. Posto al lato opposto in diagonale rispetto alla Santa Caterina,crea un triangolo armonico tra la musicalità “mozartiana” della chiesa barocca, la struttura rude ed essenziale del Castello e la linea netta e pur modulata del Municipale stesso. Il palco reale è caratterizzato dalla presenza di vittorie e cariatidi, queste ultime opera di Abbondio Sangiorgio. Il soffitto, decorato da affreschi dei fratelli Bernardino e di Fabrizio Galliari, pone al centro uno splendido lampadario di cristallo con finiture dorate. Chiuso in epoca francese, venne riaperto nel 1840 e abbellito dagli interventi di stuccatori e pittori quali Angelo Moja, che dipinse le Muse sul soffitto circolare. La rappresentazione scelta per l’evento fu La Beatrice di Tenda di Gaetano Donizetti. Non un’opera scelta a caso in quanto la protagonista della vicenda è la moglie di un condottiero casalese.
IL PERIODO OTTOCENTESCO
Nel 1861 il Teatro diventò Municipale. La Società dei Cavalieri, travagliata da difficoltà interne e soprattutto economiche, donò l’edificio al comune di Casale Monferrato con rogito indicante i beni ceduti ma anche gli obblighi di migliorie. Nella piazza si incontrano così storia e arte della città. Ed è storicamente significativo che proprio nel 1861 il Teatro sia ufficialmente consacrato come centro culturale cittadino, rispondendo agli interessi di un pubblico vasto ed eterogeneo. Interessi che andavano da rappresentazioni più raffinate di letteratura e musica a spettacoli più popolari: è eloquente il fatto che poco dopo, nel 1865, sia nata qui la maschera caricaturale di Gipin! In veste di Municipale venne inaugurato nella primavera del 1861 con la Lucrezia Borgia di Donizetti. Da molti fu considerato il miglior teatro del Regno di Sardegna dopo quello di Torino.
IL PERIODO RECENTE
Sottoposto dal Comune a un attento restauro dopo un lungo periodo di abbandono (negli anni della Seconda guerra mondiale venne anche adibito a magazzino), è tornato a essere un gioiello di stucchi, dorature e velluti. A inaugurarne la riapertura fu il grande attore Vittorio Gassman che, nel 1990, con lo spettacolo Brindisi per un teatro, diede nuova vita al Teatro Municipale. Oggi, con le sue stagioni di prosa, musica, danza, è un punto fermo nel panorama culturale casalese. Oltre agli spettacoli di danza, dramma e musica, il Municipale si è aperto a incontri culturali di vario genere, anche tecnico-scientifico, rispecchiando ancora esigenze ed interessi della società contemporanea.
David Robotti
Teatro, Un po' di storia...
Il Teatro Coccia di Novara
Il primo teatro di Novara ha una storia tutto sommato recente. Eretto su progetto dell’architetto pontificio Cosimo Morelli, venne infatti inaugurato solo nel 1779. Col passare degli anni la struttura non si rivelò più adatta alle esigenze teatrali del tempo. Il palco era poco capiente e male si adattava ai nuovi melodrammi, agli spettacoli circensi e di burattini tanto amati dalla classe borghese. Inoltre la città, che era in continua evoluzione, esigeva nuovi simboli dopo la costruzione della cattedrale e della cupola di San Gaudenzio. Nasce da qui l’esigenza di una nuova struttura. Tra il 1853 e il 1855 fu così costruito il Teatro Sociale che da subito entrò in competizione con quello più antico. Il motivo? I due teatri rappresentavano perfettamente la dicotomia della società del tempo, divisa tra la compassata aristocrazia legata alle tradizionali rappresentazioni liriche e l’esuberante borghesia cittadina attratta dai nuovi tipi di intrattenimento.
Nel 1880 l’amministrazione comunale stabilì così l’acquisto sia del Sociale sia del teatro morelliano, che già dal 1873 aveva assunto la denominazione di Teatro Coccia, in onore di Carlo Coccia, celebre maestro di cappella del Duomo di Novara. L’intento era di sostituire entrambi gli edifici con una nuova struttura.
Nel 1881 l’architetto Giuseppe Oliverio, su iniziale progetto di Andrea Scala, rivide il piano di costruzione del nuovo stabile che inizialmente avrebbe dovuto sorgere di fianco al castello in Piazza Rivarola. Negli stessi anni il consigliere comunale Andreoni avanzò l’idea di ristrutturare il Sociale, ma l’amministrazione precisò che solo uno dei due progetti sarebbe stato approvato: è palese che, oltre che tra due progetti architettonici, l’amministrazione comunale avrebbe dovuto scegliere anche tra due progetti politici.
LA “GUERRA” DEI TEATRI
Nel mentre si riformò la Società dei Palchettisti, scioltasi con la cessione del teatro, coordinata dal marchese Luigi Tornielli, sindaco di Novara, che fece ostruzionismo contro la ristrutturazione del Sociale e spinse per l’edificazione del nuovo Coccia. La presa di posizione del Tornielli fu fondamentale e la commissione istituita dal Comune scelse di attuare il progetto dell’architetto Oliverio. Per far fronte ai costi il Comune concesse l’area del vecchio Coccia per l’edificazione e 220 mila lire per la costruzione; le restanti spese sarebbero state coperte collocando 49 azioni da cinquemila lire cadauna. Nel 1886 ci fu la posa della prima pietra del nuovo teatro, costruito anche con il materiale del precedente edificio che venne demolito quasi completamente.
Il 22 dicembre 1888 fu inaugurato con l’opera Gli Ugonotti di Meyerbeer diretta da un giovanissimo Arturo Toscanini che rimase così piacevolmente colpito da quell’esperienza da scrivere ormai in tarda età in una lettera al suo pupillo novarese Guido Cantelli: «Unirò il mio applauso a quello dei tuoi concittadini che ti onorano, forse, in quel teatro che io, non ancora ventiduenne ebbi l’onore e il piacere d’inaugurare nel carnevale 1888-89… Oh! Il bel tempo che fu!!!».
IL NUOVO CHE AVANZA
Il nuovo teatro sostituì, nell’immaginario dei novaresi, il precedente edificio settecentesco. Esso occupava un’area quattro volte maggiore ed era orientato diversamente rispetto al vecchio Coccia, con l’entrata sull’attuale via Fratelli Rosselli anziché sull’odierno largo Puccini.
La facciata principale, con primo piano in stile dorico e i successivi in stile ionico, venne circondata da un porticato in granito rosa di Baveno. L’esterno fu dipinto di color grigio granito. L’atrio con pavimento a mosaico fu abbellito anche da quattro colonne di ghisa e altrettante nicchie contenenti i busti di Giuseppe Verdi, Vincenzo Bellini, Gioacchino Rossini e Gaetano Donizetti; in platea furono posizionati i busti di Saverio Mercadante e di Carlo Coccia. Ancor oggi la grande sala interna, a ferro di cavallo, ha tre ordini di palchi, al di sopra dei quali vi è la galleria. I palchi, con decori rinascimentali, sul retro potevano contare su camerini privati e retropalchi. Per far fronte agli allora popolari spettacoli equestri che necessitavano di ampi spazi, il palcoscenico era di grandi dimensioni (16 metri per 23 metri) e aveva un’area centrale mobile, nonché delle aree di servizio nascoste. Il progetto di Giuseppe Oliverio, per ragioni di bilancio, fu completato solo nel 1928. Nello stesso anno il teatro Sociale fu demolito per fare posto al palazzo delle poste: il Coccia consolidò così la sua importanza e divenne il simbolo per eccellenza della vita culturale dei novaresi.
Nel complesso architettonico del Teatro Coccia sorge il Piccolo Coccia, inaugurato nel novembre del 2005. Uno spazio polifunzionale utilizzato per presentazioni editoriali, conferenze, mostre, sala prove e convegni. Con un palco allestito di audio, luci e videoproiettore e i suoi 98 posti a sedere, modulabili, è il luogo ideale anche per spettacoli con necessità tecniche e di spazi ridotti.
David Robotti
Teatro, Un po' di storia...
Il Teatro Sociale di Valenza
La città di Valenza nell’Ottocento
La storia del Teatro Sociale di Valenza ha origine, con qualche ritardo rispetto ad altri edifici per lo spettacolo in Piemonte, in piena età risorgimentale. L’incarico di realizzare il progetto fu infatti assegnato nel 1853, quando Valenza faceva ancora parte del Regno di Sardegna e il teatro fu inaugurato ad unità nazionale raggiunta nel 1861.
In realtà la realizzazione di un teatro per la città di Valenza già era stata proposta verso la metà dell’ottocento .
La nascita del Teatro Sociale fu uno dei primi interventi di razionalizzazione e modernizzazione dell’area centrale.
La soluzione individuata per il nuovo teatro utilizzava l’area della chiesa e convento di San Francesco, interessata da un violento incendio che il 5 settembre 1842 ridusse a rovina un gruppo di immobili storici la cui data di fondazione risaliva al 1322.
Una prima planimetria, da cui si ricava la pianta della chiesa, risale al 20 dicembre 1852 ed è firmata dall’ingegner Eugenio Clerico. Si tratta della “Copia di Tipo dei locali di San Francesco, per corredo della relazione dell’ing. Clerico sulla discussione del Progetto di riadattamento di detti locali'”.
Nel 1852 l’amministrazione comunale tentò di vendere gli immobili con il sistema dell’asta pubblica e con l’obbligo per l’acquirente di riedificare; ma la procedura andò deserta e si fece strada l’idea di un intervento diretto per sanare un’area centrale interessata da varie operazioni di tipo urbanistico”
Il desiderio di un teatro
Il Comune stesso “ritenuto la mancanza in questa Città di un Teatro, contemplava tra le altre costruzioni possibili in questi siti, anche la fabbricazione di un Teatro, intendendo con questo di soddisfare ad un desiderio venuto ragionevolmente a manifestarsi tra questa popolazione siccome corrispondente alle esigenze dei tempi di progrediente civilizzazione ed in pari tempo dell’utile che si ripromette a possibile aversi dalla vendita delle logge a risultarne”
Emerge dunque chiaramente come l’apertura del teatro venisse sentita dagli amministratori del tempo come un segno di adeguamento e di modernità, sia pure con il ricorso a metodologie tipiche della gestione teatrale settecentesca, come quella del finanziamento mediante la vendita dei palchi.
L’incarico per il nuovo teatro venne affidato all’ingegnere alessandrino Ernesto Clerico, che ne aveva redatto un progetto già nel 1853 e che veniva chiamato a seguirne i lavori, iniziati solo nel 1857 e conclusi nel 1861.
La Società del Teatro
Nella seduta del Consiglio Comunale del 14 marzo 1856 veniva ufficialmente comunicata la nascita della
Società del Teatro e la proposta di questa di costruire un teatro sull’area dell’ex San Francese Nell’accettare, il Comune poneva le seguenti condizioni: a) il trasferimento a carico della Società de oneri derivanti dai canoni annui stabiliti con atto del notaio Solari del 23 luglio 1847; b) la riserva di d palchi di proprietà comunale, uno centrale nel secondo ordine, l’altro di proscenio nel terzo ordine; e) costituzione di un’efficace garanzia al Comune nel contratto definitivo di cessione. Questa linea di co portamento veniva ulteriormente modificata a distanza di un mese, in quanto nella seduta del 22 aprili Consiglio rinunciava a far pagare alla Società il canone demaniale e cedeva un’area inferiore a quella e originariamente definita.
Si arrivava così al 31 luglio 1856, e cioè alla seduta in cui il Comune di Valenza approvava il “Diviso contratto” per la cessione dell’area alla Società del teatro. Il contratto, consistente in undici articoli, e noto integralmente perché riportato nell’atto rogato dal notaio Serpentino in data 18 dicembre 1856 coi quale si poneva fine a una fase decisiva della laboriosa vicenda.
In realtà, le difficoltà non erano terminate perché con il 1857 iniziava il travagliato rapporto tra la Società, il Comune e l’appaltatore.
Cominciata la costruzione, infatti, il Comune non accedeva alla richiesta di cedere ulteriore terreno per l’ampliamento del palcoscenico. La decisione dell’impresa di invadere un sedime di pertinenza comunale (cioè il cortile dei macelli) provocava un decreto di inibizione. Pertanto la Società doveva intervenire richiedendo la dichiarazione di pubblica utilità della variante presentata dall’ing. Clerico, onde ottenere l’espropriazione del terreno comunale. La controversia fu risolta solo nel 1859 con il pagamento di un’indennità e la costruzione di un pozzo da parte della Società. Due anni dopo, nel 1861, si giungeva finalmente all’inaugurazione del teatro.
La struttura del primo teatro
La tipologia del teatro di Clerico rispecchiava, dunque, quella tipica del teatro all’italiana, con una planimetria tripartita: una destinata agli ambienti di servizio; una seconda, centrale, riservata agli spettatori; una terza per il palcoscenico ed i relativi servizi. La sala, con pianta a ferro di cavallo, era limitata da un struttura a vaso, comprendente tre ordini di palchi, ciascuno dei quali suddiviso – con lieve modifica del progetto iniziale – in sedici palchetti, compresi quelli di proscenio. Erano presenti, secondo il costume tipico del tempo, un palco reale ed il loggione soprastante.
Quasi un secolo di restauri
Il Teatro di Valenza rimase pressoché inalterato fino al 1923, anno in cui si decise di apportarvi alcune importanti modifiche funzionali rimaste poi immutate fino ai recenti lavori di restauro, con l’eccezione di interventi realizzati nella seconda metà del Novecento nel foyer, nella cabina di proiezione e nelle finiture dei prospetti. Gli interventi previsti per il teatro di Valenza riguardarono soprattutto la platea e la volta della sala. Si procedette all’abbattimento del muro d’ambito della platea, che fu sostituito da snelli pilastri cilindrici in ghisa, nonché all’abbassamento del piano della platea stessa, al fine di migliorare la possibilità di accedere al primo ordine di palchi.
L’assetto del 1923 rimase sostanzialmente invariato fino agli anni recenti, con l’eccezione di alcune modifiche apportate all’atrio e ai materiali di finitura del prospetto principale.
II primo atto ufficiale del secondo grande e storico restauro arriva nel 1993. Con l’ approvazione da parte della Giunta Comunale del disciplinare per la progettazione integrale e coordinata, affidata ad un gruppo di tecnici locali (ing. Enzo Evaso, ing. Giovanni Angeleri, arch. Claudio Bobbio). Il mandato dell’Amministrazione ai progettisti è quello di recuperare l’antico Teatro, ricavando nel contempo una serie di locali accessori che possano rendere il teatro più versatile ed efficiente, conservando così tutta la suggestione del Teatro ottocentesco.
Nel 1999 viene varata la variante che riguarda la soluzione concordata con le Soprintendenze per il restauro della facciata.
La variante del 1999 riguarda principalmente la parte di fabbricato prospiciente piazzetta Verdi: il nuovo corpo di fabbrica, addossato al volume del Teatro vero e proprio, si innesta mimeticamente, proseguendo idealmente la facciata ottocentesca di corso Garibaldi, riprendendo materiali e motivi, presentandosi come uno spazio dentro il quale si interfacciano l’esterno e l’interno, quasi una piazzetta interna, che viene anche pensata per funzionare, alla fine dei lavori complessivi, in un unicum con il Foyer del Teatro.
La nuova saletta cinematografica (98 posti) viene inaugurata nel novembre 2000, e ha continuato a funzionare, unico cinema della città, nell’attesa paziente della conclusione dei lavori del Teatro.
Anno 2007, il Teatro Sociale di Valenza ha nuova vita
II rinnovato Teatro Sociale di Valenza è dunque pronto per l’inaugurazione, fissata per il giorno 19 gennaio del 2007. Proprio gli ultimi mesi precedenti la riapertura sono portatori di altre novità, le due città decidono di dare vita ad una nuova figura amministrativa nel comparto culturale. Si tratta dell’acquisizione da parte del Comune di Valenza di alcune quote della società ATA (Azienda Teatrale di Alessandria) conseguente ad un accordo che prevede la presenza valenzana nel Consiglio di Amministrazione dell’azienda e l’affidamento alla stessa ATA della gestione del rinnovato Teatro Sociale. L’evento ha effetti importanti sul piano politico e su quello organizzativo. L’ATA diviene un sistema a carattere territoriale, in quanto gestisce in modo organico due teatri, secondo quanto stabilito dai Soci attraverso l’Assemblea e il Consiglio di Amministrazione.
Con questa scelta si intende dar vita ad un sistema integrato che prevede vari obiettivi: pensare al pubblico alessandrino-valenzano come un pubblico unico; attivare, di conseguenza, forme di promozione di comunicazione adeguate; coinvolgere il Sociale nel progetto di centro produttivo teatrale che Regione Piemonte ha finanziato in Alessandria come secondo polo regionale; esaltare, e quindi rendere complementari nella programmazione, le peculiarità delle due sale teatrali, coordinando in modo reciprocamente utile il cartellone principale, le attività di spettacolo per le scuole, la programmazione cinematografica. Una nuova stagione per Valenza e il suo teatro è incominciata.
David Robotti
Teatro, Un po' di storia...
Il Teatro alla Scala di Milano
Il Teatro alla Scala, è il principale teatro d’opera di Milano e viene universalmente considerato come uno dei più prestigiosi teatri al mondo. Inaugurato il 3 agosto 1778 con L’Europa riconosciuta composta per l’occasione da Antonio Salieri prese il nome dalla Chiesa di Santa Maria alla Scala demolita per far posto al Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala. A partire dall’anno di fondazione è sede dell’omonimo coro, dell’orchestra, del corpo di Ballo, e dal 1982 anche della Filarmonica. Il complesso teatrale è situato nell’omonima piazza, affiancato dal Casino Ricordi, oggi sede del Museo teatrale alla Scala.
L’edificio fu costruito in conformità al decreto dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria dopo che un incendio, divampato il 26 febbraio 1776, aveva distrutto il teatro di corte. Il progetto venne affidato al celebre architetto Giuseppe Piermarini, il quale provvide anche al disegno del “Teatro Interinale”, una struttura temporanea costruita presso la chiesa di San Giovanni in Conca, e del Teatro della Cannobiana, dalla pianta assai simile a quella della Scala, ma in dimensione ridotta, dedicato a spettacoli più “popolari”. La decorazione pittorica fu realizzata da Giuseppe Levati e Giuseppe Reina. Al contrario Domenico Riccardi dipinse il sipario, rappresentante, pare su suggerimento del Parini, il “Parnaso”. Le spese per l’edificazione del nuovo teatro furono sostenute dai palchettisti del “Regio Ducale” in cambio del rinnovo della proprietà dei palchi.
I lavori di demolizione della collegiata di Santa Maria iniziarono il 5 agosto 1776, il 28 maggio 1778 si svolsero le prime prove di acustica e il 3 agosto, alla presenza del governatore di Milano, l’arciduca Ferdinando d’Asburgo-Este, di Maria Beatrice d’Este, del conte Carlo Giuseppe di Firmian e del duca Francesco III d’Este, venne finalmente inaugurato.
Il teatro non era all’epoca soltanto un luogo di spettacolo: la platea era spesso destinata al ballo, i palchi venivano usati dai proprietari per ricevervi degli invitati, mangiare e gestire la propria vita sociale, nel ridotto ed in un altro spazio in corrispondenza del quinto ordine di palchi si giocava d’azzardo (tra i vari giochi figura anche la roulette, introdotta dall’impresario Domenico Barbaja nel 1805). Durante gli anni di dominazione austriaca e francese, la Scala era finanziata, oltre dagli introiti provenienti dal gioco, dalle stesse famiglie che avevano voluto la costruzione del teatro e ne conservavano la proprietà attraverso le quote dei palchi. Mentre i primi tre ordini rimasero per molti anni di proprietà dell’aristocrazia, il quarto e il quinto erano per lo più occupati dall’alta borghesia, che a partire dagli anni venti fa un massiccio ingresso in teatro. In platea, ed ancora di più in loggione, vi è un pubblico misto di militari, giovani aristocratici, borghesi, artigiani.
L’Ottocento
Tra la primavera e l’estate del 1807, le stagioni furono trasferite alla Canobbiana a causa di importanti lavori di rifacimento delle decorazioni interne, ridisegnate secondo il gusto neoclassico mentre nel 1814, a seguito della demolizione di alcuni edifici tra i quali il convento di San Giuseppe, venne ampliato il palcoscenico secondo il progetto di Luigi Canonica. Un grande lampadario con ottantaquattro lumi a petrolio, disegnato dallo scenografo Alessandro Sanquirico, venne appeso al centro del soffitto nel 1823. Contrastanti furono le reazioni: contro i sostenitori dell’innovazione alzava la voce chi riteneva che il lampadario illuminasse troppo la sala, permettendo agli sguardi indiscreti di penetrare nell’intimità dei palchi.
Nel 1830, le fasce tra gli ordini tra i palchi vennero decorate, sempre su indicazione del Sanquirico, con rilievi dorati e Francesco Hayez realizzò una nuova decorazione della volta della sala, visibile ancora nel 1875, quando fu sostituita da una decorazione a grisaille. Nel 1835, su progetto di Pietro Pestagalli, vennero aggiunti nella facciata due piccoli corpi laterali sormontati da terrazzi.
Giuseppe Verdi (1813-1901) esordì alla Scala nel novembre 1839 con Oberto, Conte di San Bonifacio con Mary Shaw, Lorenzo Salvi ed Ignazio Marini diretti da Eugenio Cavallini, opera di stampo donizettiano, ma con alcune sue peculiarità drammatiche che piacquero al pubblico, decretandone un buon successo. Visto l’esito dell’Oberto, l’impresario Merelli gli commissionò la commedia Un giorno di regno, andata in scena con esito disastroso. Fu ancora Merelli a convincerlo a non abbandonare la lirica, consegnandogli personalmente un libretto di soggetto biblico, il Nabucco, scritto da Temistocle Solera. L’opera andò in scena il 9 marzo 1842 e nonostante un’iniziale tiepida accoglienza, a partire dalla ripresa del 13 agosto il successo fu questa volta trionfale grazie anche al forte sentimento patriottico che suscita nella città nella quale fermentava il nascente Risorgimento, rafforzando la popolarità del melodramma identificandone l’immagine con la Scala.
I titoli del primo periodo scaligero del compositore di Busseto come I Lombardi alla prima crociata e Giovanna d’Arco, oltre a quelli già citiati appassionarono il pubblico, ora composto anche da borghesi.
Proprio in occasione della messa in scena della Giovanna d’Arco, nel 1845, i malumori intervenuti a causa della generale scarsa considerazione dei desiderata dei compositori di fronte alle necessità, soprattutto economiche, degli impresari scaligeri, spinsero Verdi a rinunciare per oltre vent’anni al palcoscenico che lo aveva lanciato.
Gli anni dell’esilio scaligero di Verdi non furono tra i più felici per il teatro. A parte alcuni titoli (Il barbiere di Siviglia, Semiramide, La Cenerentola, Guillaume Tell) le opere rossiniane tendono a diradare; costante è invece la presenza di Bellini, scomparso già nel 1835, e di Donizetti. L’ultima opera composta da Mercadante per la Scala, La schiava saracena, passa inosservata, e anche le opere precedenti del compositore altamurano, scompaiono dai cartelloni. Accanto alle opere composte da Verdi per gli altri teatri d’Europa, successo ottengono anche le produzioni di Giacomo Meyerbeer.
La Scala dopo l’Unità d’Italia
Dopo la partenza dalla città dagli austriaci (1859), l’attività riprende con Lucia di Lammermoor di Donizetti: alla recita del 9 agosto assiste anche il re Vittorio Emanuele II. A seguito dell’unità d’Italia, la Municipalità si sostituì al governo austriaco nell’erogazione di sovvenzioni al teatro.
Nel 1860, in occasione della serata di apertura della Stagione di Carnevale e Quaresima, venne inaugurato il nuovo sistema di lumi a gas del lampadario del Sanquirico. Nel 1883 venne invece completato l’impianto di illuminazione elettrica.
Negli anni immediatamente successivi si tentarono alcuni esperimenti, per lo più falliti: I profughi fiamminghi di Franco Faccio su libretto di Emilio Praga nel 1863, manifesto antiverdiano che proponeva l’abbandono delle tradizionali formule operistiche, e Mefistofele di Arrigo Boito (1868), spettacolo di quasi sei ore che si rifaceva al dramma wagneriano. Nel 1870 avviene il successo della prima assoluta di Il Guarany di Antônio Carlos Gomes con Victor Maurel. È invece dal 1873 la prima, apparizione scaligera del grande compositore tedesco con Lohengrin, nella traduzione di Salvatore Marchesi, diretto da Faccio con Italo Campanini (tenore) e Maurel alla presenza di Antonio Smareglia.
Rassicurato da Tito Ricordi e da suo figlio Giulio, Verdi tornò alla Scala nel 1869 con il successo di una versione rinnovata de La forza del destino “messa in scena dall’autore”, come si legge nel cartellone con Teresa Stolz e Mario Tiberini.
Tra i titolari della gestione degli anni post unitari si possono ricordare i fratelli Corti (1876) e Luigi Piontelli (1884-1894).
Tra il 1894 e il 1897 la gestione del teatro passò in mano all’editore Edoardo Sonzogno. Sul palcoscenico scaligero apparvero in quegli anni opere di compositori francesi (Charles Gounod, Fromental Halévy, Daniel Auber, Hector Berlioz, Georges Bizet, Jules Massenet, Camille Saint-Saëns) e della cosiddetta scuola verista (Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, Umberto Giordano). Grande successo ebbero anche le opere di Richard Wagner, che in quegli anni inaugurano spesso la stagione operistica.
Tra il 1881 ed il 1884 furono rinnovate le decorazioni degli ambienti al piano terra seguendo un progetto del 1862 degli architetti Savoia e Pirola. Nel 1891, per controllare meglio l’afflusso degli spettatori, furono aboliti i posti in piedi e vennero installate le prime poltrone fisse in platea.
Il 1º luglio 1897, il Comune di Milano, posto di fronte a emergenze sociali e sotto la spinta delle sinistre, decise di sospendere il proprio contributo: la Scala fu costretta a chiudere dal 7 dicembre (anche le scuole di canto e ballo).
Il teatro riaprì il 26 dicembre 1898 con I maestri cantori di Norimberga diretta da Arturo Toscanini con Angelica Pandolfini, Emilio De Marchi (tenore), Antonio Scotti e Francesco Navarrini grazie alla munificenza di Guido Visconti di Modrone. Riparate con fondi personali le perdite e fondata una Società Anonima, di cui il duca assunse la carica di presidente chiamando Arrigo Boito quale proprio vice, l’attività ricominciò sotto la direzione generale di Giulio Gatti Casazza e la direzione artistica di Toscanini.
Il primo periodo di Toscanini alla Scala fu segnato dal profondo interesse del direttore per Richard Wagner, ma anche per Meyerbeer e Berlioz. Fra i compositori contemporanei, catalizzarono la scena scaligera Mascagni, Franchetti, Boito.
Il 21 aprile 1889, con la prima di Edgar, fece il proprio esordio il giovane Giacomo Puccini, ottenendo un successo cordiale ma non propriamente caloroso. Un clamoroso fiasco fu invece, qualche anno dopo, la prima della Madama Butterfly (1904).
Il Novecento
Nel 1900 avviene il successo della prima assoluta di Anton di Cesare Galeotti diretta da Toscanini con Giuseppe Borgatti ed Emma Carelli e nel 1901 un concerto commemorativo per la morte di Verdi diretto da Toscanini con Amelia Pinto, Francesco Tamagno ed Enrico Caruso.
Nel 1909, il quinto ordine di palchi fu trasformato nell’attuale “prima galleria” per permettere a più spettatori, non proprietari di palchi, di assistere agli spettacoli.
Alla fine del 1918, Visconti di Modrone fu costretto a rinunciare all’incarico per ragioni economiche. Lo stallo di due anni portò ad una radicale trasformazione dei criteri di gestione: grazie alla rinuncia del diritto di proprietà sia da parte dei palchettisti che del Comune, venne fondato infatti l’Ente Autonomo Teatro alla Scala subito impersonato dal direttore generale Angelo Scandiani. Grazie a sovvenzioni comunali e statali e alle somme raccolte attraverso una sottoscrizione promossa dal Corriere della Sera, il teatro poté finalmente godere di una completa autonomia.
Si deve a Scandiani la costituzione formale dell’orchestra del Teatro alla Scala, i cui musicisti, un centinaio, verranno d’ora in poi scelti secondo rigidi criteri di selezione e assunti con regolari contratti a tempo indeterminato. Alla direzione musicale tornò ancora una volta Toscanini, promotore di una intensa e straordinaria stagione per il teatro. Il palco scaligero vide avvicendarsi i maggiori cantanti del tempo, tra cui Fëdor Ivanovič Šaljapin, Magda Olivero, Giacomo Lauri-Volpi, Titta Ruffo, Enrico Roggio, Gino Bechi, Beniamino Gigli, Mafalda Favero, Toti Dal Monte, Gilda Dalla Rizza, Aureliano Pertile.
Nel 1929 lo Stato fascista riservò al capo del governo la facoltà di nomina del presidente dell’Ente e impose la partecipazione di un rappresentante del Ministero dell’Educazione Nazionale al consiglio di amministrazione. Di fronte a ciò, Toscanini, portata a termine l’impegnativa tournée a Vienna e Berlino, lasciò la direzione del teatro nel maggio dell’anno successivo e si trasferì a New York. Nel 1931, a seguito di un’aggressione subita a Bologna, schiaffeggiato davanti al Teatro Comunale per essersi rifiutato di eseguire la Marcia Reale e Giovinezza, il maestro lasciò definitivamente il paese.
Nel 1932, Luigi Lorenzo Secchi progettò le “scale degli specchi” che collegano il foyer al ridotto dei palchi, anch’esso al centro di importanti lavori nel 1936.
Nel 1938 il palcoscenico venne dotato di ponti e pannelli mobili, oltre che di un sistema che permetteva di abbassarne il livello, facilitando il carico delle scene direttamente dal cortile.
Il 26 dicembre 1938 il maestro del coro Vittore Veneziani lascia la Scala per l’esilio a causa delle persecuzioni razziali.
Subito dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, comparvero sui muri del teatro manifesti inneggianti al ritorno di Toscanini (“Evviva Toscanini”, “Ritorni Toscanini”). Nella notte tra il 15 ed il 16 agosto di quell’anno, però, la Scala subì un devastante bombardamento: gravi danni furono causati alla sala (crollo del soffitto, di parte delle gallerie e dei palchi), andarono completamente distrutti il palcoscenico e le strutture di servizio. Su iniziativa dell’assessore alla cultura Achille Magni e con il placet del sindaco di Milano Antonio Greppi, si optò per ricostruire il teatro “com’era e dov’era” prima del conflitto. Fu perciò nominato un commissario straordinario (Antonio Ghiringhelli) che diede avvio ai lavori, guidati dall’ingegnere capo del Comune di Milano Secchi. Quest’ultimo continuerà fino al 1982 a sovraintendere alle opere di adeguamento e rinnovo del teatro.
La Ricostruzione e il ritorno di Toscanini
I lavori si protrassero fino al maggio 1946, ma nel frattempo non si cessò di far musica: l’attività scaligera continuò presso il Teatro Sociale di Como, nel Teatro Gaetano Donizetti di Bergamo e, a Milano, nel Teatro Lirico e nel Palazzetto dello Sport. Il 13 dicembre 1945 per l’inizio della stagione nel Teatro Lirico, il maestro del coro Vittore Veneziani torna alla Scala. L’11 maggio 1946 alle ore 21:00 “precise”, come si legge sul cartellone, Toscanini inaugurò la nuova sala, dirigendo l’ouverture de La gazza ladra, il coro dell’Imeneo, il Pas de six e la Marcia dei Soldati del Guglielmo Tell, la preghiera del Mosè in Egitto, l’ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l’ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l’intermezzo e estratti dall’atto III di Manon Lescaut, il prologo ed alcune arie del Mefistofele. Il “concerto della ricostruzione”, che vide tra gli interpreti anche Renata Tebaldi con Veneziani, Mafalda Favero, Giuseppe Nessi e Tancredi Pasero, fu un evento storico per tutta Milano. Come scrisse Filippo Sacchi:
Dopo una serie di concerti diretti da Toscanini, Klecky e Votto, l’attività operistica riprese il 26 dicembre con il Nabucco.
La gestione di Ghiringhelli, nominato sovrintendente nel 1948, fu contrassegnata tra l’altro dalle partigianerie tra i sostenitori di Maria Callas Meneghini e di Renata Tebaldi: il soprano greco, che era già apparsa in sostituzione della collega italiana in alcune recite di Aida del 1950 diretta da Franco Capuana con Fedora Barbieri, Mario Del Monaco e Cesare Siepi, ottenne il primo trionfo scaligero in occasione dell’apertura della stagione 1951-52 come La Duchessa Elena ne I vespri siciliani diretta da Victor de Sabata con Enzo Mascherini, Boris Christoff, Enrico Campi e Gino Del Signore.
Il 18 febbraio 1957 la Scala ricordò Toscanini, scomparso a New York in gennaio, con un concerto diretto da Victor De Sabata.
Nell’estate 1967 viene promulgata una legge che riordina lo status dei principali teatri italiani, riconoscendo alla Scala, “ente autonomo lirico”, la personalità giuridica di diritto pubblico. Da questo momento in poi il presidente del consiglio d’amministrazione del teatro è il sindaco della città, mentre il sovrintendente è proposto dal Consiglio comunale e nominato dal Ministro per il turismo e lo spettacolo (la competenza è attualmente trasferita al Ministero per i Beni e le Attività Culturali). Al sovrintendente spetta il compito di predisporre i bilanci e, assieme al direttore artistico, nominato dal c.d.a., la stagione scaligera.
Antonio Ghiringhelli, cui va riconosciuto, tra l’altro, il merito di aver risollevato il teatro nella difficile situazione del dopoguerra, fu soprattutto un imprenditore. Grande influenza ebbe durante la sua gestione la competenza teatrale dei direttori artistici Mario Labroca, Victor de Sabata, Francesco Siciliani, Gianandrea Gavazzeni e Luciano Chailly. Nel 1972 furono nominati il nuovo sovrintendente, Paolo Grassi, uno dei fondatori del Piccolo Teatro, regista ed editore di collane teatrali e il direttore artistico, il pianista e musicologo Massimo Bongianckino. Nello stesso anno Claudio Abbado, già da qualche anno direttore musicale dell’orchestra, è nominato direttore musicale del teatro. Sotto questa gestione si è registrato il periodo di maggior produttività del teatro, che metteva in scena quasi 300 rappresentazioni all’anno.
Nel 1976 venne realizzato il meccanismo idraulico che consentì al piano dell’orchestra di essere sollevato fino al livello del palcoscenico.
L’anno successivo si ebbe un nuovo cambio nella gestione: a sostituire Grassi fu chiamato Carlo Maria Badini, già sovrintendente del Teatro Comunale di Bologna, mentre Claudio Abbado prese il posto di Francesco Siciliani, subentrato due anni prima a Bongianckino nella carica di direttore artistico. Nel 1978 si festeggiò il secondo centenario dalla fondazione del teatro con una stagione in cui spiccarono Verdi (Don Carlo, Un ballo in maschera, I masnadieri, La forza del destino e Il trovatore) e Claudio Monteverdi (L’Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea). Furono rappresentate anche due novità assolute di Luciano Berio (La vera storia) e di Camillo Togni (Blaubart), L’heure espagnole e L’enfant et les sortilèges di Maurice Ravel, Madama Butterfly e Manon Lescaut di Puccini, Fidelio di Beethoven, Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg, Tristan und Isolde di Wagner, Die Entführung aus dem Serail di Mozart e molti balletti, tra cui il Ballo Excelsior.
Solo un anno più tardi, nel 1979, Abbado lasciò la direzione artistica, mantenendo però quella musicale. Nel 1982, in tale veste, fondò, sul modello dei Wiener Philharmoniker, la Filarmonica della Scala. Nel 1986, ultimo anno della direzione Abbado, fu promotore di un importante “Omaggio a Debussy”, coinvolgendo anche il coreografo Maurice Béjart.
A sostituire Abbado fu chiamato il maestro napoletano Riccardo Muti, il quale promuoverà una stagione di riscoperta di opere come Lodoïska di Luigi Cherubini, Alceste e Iphigénie en Aulide di Christoph Willibald Gluck, con regie di ricerca e rinnovamento.
Con la nuova gestione di Carlo Fontana, nominato sovrintendente nel 1990, la Scala ha continuato non solo la tradizionale attività, ma ha puntato sulle tournée all’estero (ad esempio il Requiem di Verdi diretto da Abbado prima, da Muti poi, portato, tra l’altro, nella Cattedrale di Notre-Dame a Parigi, o la versione di Falstaff che ha aperto la stagione 1979-80, regia di Giorgio Strehler, scenografia di Ezio Frigerio).
Gli anni 2000 e la Fondazione del Teatro alla Scala
Nel 1996 fu costituita per legge dallo Stato italiano, dalla Regione Lombardia e dal Comune di Milano, la Fondazione Teatro alla Scala, una fondazione di diritto privato, senza scopo di lucro, con il fine di perseguire la diffusione dell’arte musicale, l’educazione musicale della collettività, la formazione professionale dei quadri artistici e tecnici la ricerca e la produzione musicale, anche in funzione di promozione sociale e culturale. Ai “fondatori di diritto” può aggiungersi qualsiasi soggetto, pubblico o privato, straniero o italiano, che concorra alla formazione del patrimonio della fondazione con un contributo minimo fissato dallo statuto.
Il nuovo statuto ha anche permesso l’apertura della sala del Piermarini ad attività commerciali e finanziarie.
Importanti lavori interessarono l’edificio dal gennaio 2002 al dicembre 2004 che ha affrontato il più profondo intervento di restauro dell’edificio storico e di modernizzazione del palcoscenico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. In questo periodo il Teatro degli Arcimboldi, nel quartiere decentrato della Bicocca, sorto sull’Area ex Pirelli, diventa il palcoscenico della Scala. Il teatro rinnovato venne ufficialmente restituito al pubblico il 7 dicembre con la rappresentazione della stessa opera che fu commissionata per l’inaugurazione della Scala nel 1778, L’Europa riconosciuta, di Antonio Salieri, fortemente voluta dal direttore musicale Riccardo Muti.
Dopo poco più di un anno, complesse polemiche videro l’allontanamento di Muti e la nomina, il 2 maggio 2005, del sovrintendente Stéphane Lissner, già direttore del Festival di Aix-en-Provence (è il primo sovrintendente non italiano nella storia della Scala). Daniel Barenboim, dopo l’esordio, il 7 dicembre 2007, con Tristano e Isotta di Richard Wagner, venne nominato direttore musicale nel 2011, mantenendo allo stesso tempo la direzione dell’Opera di Stato di Berlino. Accanto a giovani direttori come Daniel Harding e Gustavo Dudamel, Lissner riportò alla Scala, il 30 ottobre 2012, Claudio Abbado, assente dal teatro milanese da ventisei anni. Innovative e talvolta discusse sono state le scelte di regia (Robert Carsen, Emma Dante, Claus Guth, Nikolaus Lehnhoff). Nell’ottobre 2012 vengono confermate le voci circa l’addio di Lissner, che dal 2015 passerà all’Opéra National de Paris. Gli succederà Alexander Pereira. Sempre dal 1º gennaio 2015, a Daniel Barenboim succederà Riccardo Chailly.
David Robotti
Teatro, Un po' di storia...
Storia del Teatro di Varietà
Il teatro di varietà, o teatro di arte varia, o, più comunemente, varietà, o anche variété nella declinazione francese, è un genere di spettacolo teatrale di carattere leggero nato alla fine del XIX secolo a Napoli come imitazione del Cafè-chantant francese.
Nonostante la nascita del varietà si collochi tra il fenomeno dell’importazione del cafè-chantant e quello della nascita dei teatri di cartone, la vera genesi è ignota o perlomeno di difficile reperimento. Il varietà affonda infatti le sue radici nello spettacolo popolare (i drammi da feuilletton ma anche le commediole borghesi) e nelle esecuzioni degli artisti circensi, di strada e dei cantanti.
Inizialmente tutto era francesizzato, dai nomi alla recitazione ai gesti fin quando, almeno, non cominciarono a farne parte anche stili provenienti da altre nazioni. La necessaria esotizzazione del varietà aveva un duplice scopo: in primis, avrebbe permesso di accostare i teatri che lo ospitavano alla Belle époque parigina, sinonimo di divertimento; dal lato degli esecutori, invece, c’era la possibilità di un maggiore richiamo commerciale proprio per la (finta) provenienza straniera, che assicurava la nomea di vedette internazionale a chi stravolgeva la propria nazionalità.
I Teatri per il “Varietà”
Gli spazi erano sostanzialmente di tre tipi: i teatri di primo ordine, dove vi recitavano soltanto gli artisti di fama riconosciuta; i teatri di secondo o terzo ordine che potevano essere sale da caffè (caffè-concerto) o teatri veri e propri ma molto popolari, ed infine tutti quei locali dove poteva essere allestito alla buona un palco. L’ingresso era a pagamento e il successo di un artista lo decretava solo il pubblico in base al suo gradimento. Se l’artista veniva fischiato questo veniva “segnalato” su quella che poteva essere chiamata “fedina artistica” dell’artista con conseguente perdita di rispetto e prestigio.
Sul versante della recitazione e dell’intrattenimento cabarettistico, si cominciò con numeri a metà fra a canzonetta e il monologo, per passare poi alla macchietta, il cui inventore fu Nicola Maldacea, e che consisteva in una caricatura di “tipi” presi dalla realtà (fu l’inventore della macchietta del Viveur, il bello senza nulla nel cervello), per poi ampliarsi con numeri di balletto, prestidigitazione, trasformismo ed altri ancora.
Ettore Petrolini fu uno dei più grandi artisti di varietà: cantante, attore, drammaturgo, si produsse dalle macchiette alle commedie.
I Personaggi
La caratterizzazione del personaggio era importantissima: poiché il teatro di varietà non viveva di mitizzazione ma del reale gradimento degli spettatori, era necessario acquisire sia una riconoscibilità tale da crearsi un nome, sia riuscire a rendersi graditi tramite una tipologia ben definita di personaggio con il quale inventare numeri destinati spesso a modificarsi di sera in sera.
Il varietà era molto differente a seconda della localizzazione geografica, proprio perché gli artisti (soprattutto attori, cantanti di generi popolari, finedicitori, comici eccetera), attingevano molto alle proprie tradizioni: si potrebbe parlare perfino di un teatro del centro-nord Italia, ravvisabile nel Veneto, nel Piemonte, nella Lombardia e nella Toscana, e di un teatro del centro-sud, i cui poli erano indubbiamente Roma e Napoli.
Furono soprattutto gli artisti di queste città a contribuire alla nascita dell’attore-scrittore, ossia di colui che scriveva i pezzi da recitare in pubblico: artisti famosi del Varietà furono infatti Totò, Raffaele Viviani, Ettore Petrolini, Gustavo De Marco, tutti creatori di tipi ben definiti, seppur variegati. Leopoldo Fregoli, invece, contribuì all’idea di corpo dinamico dell’attore novecentesco, immettendosi con gli altri artisti nel filone del rinnovamento dell’arte teatrale di cui il varietà fu un precursore “dal basso”.
Il varietà, a differenza del teatro drammatico o, in generale, del teatro “alto”, non venne mai insignito dello statuto di arte. Proprio perché popolare, derivante da una cultura completamente antitetica al coevo D’Annunzio, subì sempre una sorta di ostracismo da parte dei critici e degli amanti del teatro.
Le conseguenze furono evidenti anche sul piano strettamente professionale: gli artisti di varietà non potevano accedere alle pensioni che lo Stato Italiano elargiva ai loro colleghi di altri settori, mentre i teatri di varietà stessi non fruivano di alcun sovvenzionamento o incentivo statale.
Durante il fascismo, poi, l’ostracismo derivante dalla volontà di sopprimere gli spettacoli in dialetto e di annullare i richiami all’estero in nome di una cultura di massa nazionale, sfavorirono di molto il varietà, che si trovò sempre meno ricercato e rappresentato.
Ma fu proprio la derivazione popolare a rappresentare uno dei punti di forza e di innovazione del teatro di varietà, nei generi appunto che dal popolo traevano ispirazione; e che per il popolo acquisivano linguaggi, tematiche, tempi e svolgimenti propri, tanto da rappresentare quasi una rivoluzione nel campo teatrale. Nel varietà non esisteva l’autorità del singolo, sebbene spesso l’attore fosse solo in scena: l’evento teatrale, infatti, si appoggiava sulla collettività e sfociava in qualità espressive che ad essa si riferivano. La rivoluzione del varietà fu muta, sotterranea, ma al contempo così semplice da cogliere da non essere compresa che da pochi individui.
Proprio l’immediatezza e la velocità del genere spettacolare attirarono l’attenzione di Filippo Tommaso Marinetti, che il 1 ottobre 1913 pubblicò sul giornale Lacerba il Manifesto del teatro di varietà, nel quale esaltava la novità di un tipo di teatro che rinnegava la verosimiglianza prediligendo al contrario la spettacolarità, il paradosso, l’azione e la praticità.
Questo tipo di teatro, quando fu organizzato in modo schematico diede vita alla Rivista, che era appunto l’unione di vari numeri legati però da un sottile filo che poteva essere il tema generale o altro.
Come altri generi teatrali minori, anche il varietà patì la concorrenza di cinema e televisione: scomparso dai teatri per confluire nell’avanspettacolo prima e nella rivista poi, conserva oggi nei varietà televisivi unicamente il nome.
I grandi attori di Varietà
Il successo di attori come Petrolini, Totò e Viviani, a ben vedere, fu sempre decretato nel momento in cui venivano definiti grandi attori e non, come poteva accadere per i colleghi del teatro drammatico, di interpreti: nel momento in cui gli artisti del varietà interpretavano le loro stesse scritture, senza cimentarsi nei lavori dei drammaturghi, l’unica definizione che poteva riassumere le loro capacità era quella di attore. C’è da sottolineare che, nei primi anni del Novecento, ferveva il dibattito sulla figura dell’attore ad opera di critici, studiosi e letterati come Silvio D’Amico e Luigi Pirandello: mentre Pirandello si dichiarava ostile all’arte drammatica, poiché questa tradiva sostanzialmente sia il testo che la “vita” di un personaggio, D’Amico sosteneva che al grande attore mancava la spontaneità e la capacità di improvvisazione dell’attore di varietà, facendo bene attenzione a non fare però richiami alla Commedia dell’Arte.
È pur vero che non tutti i risultati generati dal varietà sono stati interessanti e di medesimo valore, ma bisogna riconoscere in questo genere di essere sempre stato all’avanguardia se non nella concezione, almeno in alcuni mezzi espressivi così come nell’azione per e con lo spettatore da parte dell’attore, che utilizzando il pubblico come primo elemento, modificandosi e plasmando la propria interpretazione a seconda delle esigenze, non rispecchiando ma trasfigurando e contraddicendo il mondo in opposizione a ciò che il teatro borghese metteva in scena, non lasciava fermare il fruitore al solo prodotto finito ma gli consentiva di riconoscerne le varie componenti strutturali, negli agenti e nei mezzi, che ne differenziano i risultati e che quindi lo valorizzano nella poliedricità.
Non a caso sia le avanguardie storiche come il futurismo sia alcuni grandi protagonisti della storia dello spettacolo internazionale come Gordon Craig hanno subito l’influsso ed il fascino della comicità proposta al largo dei circuiti dei teatri di velluto.
Immediatezza, praticità, improvvisazione, creazione, capacità di tenere la scena ed altre furono le innovazioni del genere che contrappose la propria esperienza a quella del teatro accademico, ponendo l’accento sulla creatività dell’attore, sul teatro inteso come luogo di comunione tra gli interpreti ed il pubblico, sul corpo come mezzo espressivo, sulla satira come elemento di attinenza alla contemporaneità, verso la quale spesso (ma non sempre) il varietà mantenne un atteggiamento pur leggero ma aspramente critico.
Gli artisti che si produssero nel varietà furono tanti e di non facile elencazione, anche perché la commistione di generi come il Café-chantant, l’operetta, il teatro di prosa, il teatro dialettale, il balletto, la pantomima, il music-hall ma anche successivamente l’avanspettacolo, la rivista ed il cinema e altri fu tale che spesso gli interpreti delle varie discipline artistiche passarono facilmente dall’uno all’altro, non permettendo un sintetico ed univoco quadro d’insieme.
David Robotti
Teatro, Un po' di storia...
Storia del Teatro di Animazione
Con il termine teatro d’animazione sono indicate tutte le forme di spettacolo dal vivo che fanno uso di oggetto e figure che nella rappresentazione vengono animate artificialmente, a imitazione del movimento vitale. Animare significa dare vita.
Il teatro d’animazione è innanzi tutto teatro. Ciascun genere ha una propria storia, delle proprie regole e quindi un proprio linguaggio.
Cenni sul teatro antico
Ritroviamo burattini e marionette fin dall’antichità, ben prima della nascita del teatro d’attore. La loro origine e funzione è religiosa: venivano impiegati all’interno dei templi per raccontare i miti. In questo caso le marionette rappresentavano dei, semidei e uomini. I reperti più antichi che finora si conoscono risalgono all’VIII e al VII secolo a.C. e sono stati ritrovati in Grecia.
La necessità di avere sottomano oggetti che confermino la fede fa sì che le statue delle divinità diventino marionette, con fili e articolazioni per rendere sensibile e visibile il processo di fede. Il Dio abita la statua e la muove.
Spesso queste figure sono utilizzate nei riti di fertilità.
Erodoto ci testimonia quest’uso in Egitto. Soprattutto delle straordinarie statue di Dedalo, così somiglianti agli esseri viventi si può, per loro, a ragione parlare di antenate delle marionette.
Il marionettista, già al tempo di Senofonte, che cita lo spettacolo delle marionette nel suo Simposio, è una professione a tutti gli effetti.
La letteratura greca e romana conservano citazioni che si riferiscono unicamente a statue o statuette mosse da fili, quindi arcaiche marionette, spesso articolate non solo nelle braccia, ma anche nelle gambe, nel collo, negli occhi e addirittura nelle dita.
E’ certo che Platone conoscesse il teatro dei burattini e si può presumere che questa forma di spettacolo fosse allora diffusa e conosciuta.
Il teatro dei burattini e delle marionette nel Medioevo
Se nell’età classica, come si è detto, la presenza di burattini e marionette è documentata, nel periodo medioevale la scarsità delle informazioni è pressoché assoluta.
Il teatro dei burattini e delle marionette si può inserire nel più ampio scenario degli spettacoli di strada: giocolieri, cantastorie, saltimbanchi, mimi, ammaestratori d’animali e artisti vari.
Purtroppo le due uniche testimonianza dello spettacolo di burattini nel medioevo sono due miniature trecentesche, conservate nella Bodleian Library di Oxford, a corredo dell’opera di Jean de Grise Li romans du bon roi Alexandre, dove il teatrino è contrassegnato ai lati da due piccole torri, particolari decorativi che ne delimitano lo spazio scenico e che probabilmente sono all’origine del termine castello, ancora oggi utilizzato per indicare la struttura che ospita il teatro dei burattini in italiano, in francese (castellet) e in spagnolo (castillo).
Per trovare il termine burattino, così come lo intendiamo oggi, occorrerà attendere il 1652, quando Domenico Ottonelli pubblicherà il suo trattato Della Christiana moderazione del teatro.
La sacra rappresentazione
Dalla fine del X secolo cominciano a essere recitate all’interno delle chiese Le sacre rappresentazioni, spettacoli che mettono in scena le storie bibliche e dei santi, organizzate dalle confraternite delle arti e dei mestieri. Sono spettacoli che coinvolgono tutta la popolazione, che contribuisce fattivamente alla costruzione e realizzazione dello spettacolo. Il fine dello spettacolo è creare un senso di appartenenza, pur mantenendo la propria autonomia, all’istituzione religiosa e, nello stesso tempo, di divulgazione delle Sacre Scritture e delle vite dei Santi.
In quest’ultime, inoltre, cominciano a comparire, in contrasto con le figure positive della religione, i personaggi negativi: diavoli, spettri, morti, animali fantastici e altro, che acquisiranno successivamente valenza comica.
L’etimologia più accreditata del temine marionetta risale proprio al medioevo e si vuol far risalire a un evento storico realmente accaduto.
Nel 944 a Venezia, mentre dodici belle ragazze si accingevano a raggiungere in corteo la Chiesa di Santa Maria della Salute per celebrare le loro nozze, ci fu un’incursione di pirati saraceni. La gioventù locale subito reagì e, a bordo di numerose barche, inseguì i pirati raggiungendoli in breve tempo e liberando le spose rapite.
In memoria di questo evento fu istituita nella città la Festa della Marie e per l’occasione, a spese della comunità, era fornita la dote a dodici fanciulle povere, ma di buoni costumi, perché potessero raggiungere le nozze con una dignità economica superiore al loro censo.
Questa festa divenne però sempre più onerosa per le casse della Serenissima Repubblica e anche la scelta delle fanciulle provocava tumulti e feroci discussioni. Le ragazze da dodici furono ridotte a quattro, poi a tre, fino ad essere rimpiazzate con figure di legno meccaniche con arti mobili chiamate “marione” (grandi Marie), portate ogni anno in processione per la città.
In occasione di questa festa erano prodotte copie in miniatura della marione, vendute poi nelle bancarelle: è da queste piccole riproduzioni che nasce il nome di marionette (cioè piccole marione).
Tra medioevo e Commedia dell’Arte
Durante il periodo di transizione tra il medioevo e la nascita della Commedia dell’Arte, dove la storiografia fatica a trovare punti di appoggio, lo spettacolo mette già le basi per quel grande evento che sarà appunto, la Commedia dell’Arte.
La società medioevale è caratterizzata al più basso livello da popolazioni poco attaccate alla terra e alla loro etnia, essendo a quel tempo la terra di proprietà del Signore.
Ciò portava a sviluppare una grande mobilità: per vivere occorreva potersi muovere. Questa umanità in movimento è costituita da girovaghi, uomini di spettacolo, pellegrini, spesso in gruppi.
Dall’anno Mille alla fine del Medioevo si ha un grande slancio spirituale. E’ in questo periodo che nascono i gruppi di eretici e giullari, teatranti, saltimbanchi, cantastorie. I burattinai sono spesso associati a questa categoria di ciarlatani (come venivano denominati all’epoca), e subiranno poi, nel Rinascimento e con la Controriforma, le stesse reprimende.
Sono la piazza e il mercato tardo-medioevale che vedono questi artisti distinguersi da altre figure di mendicanti e questuanti.
Gli spettacoli di piazza sono definite baggatelle, termine che in quel tempo designa gli spettacoli di burattini, di giocolieri, di prestigiatori e, in generale, di manipolatori, cioè artisti che usano le mani nelle loro esibizioni.
L’uso della maschera, che in passato era impiegata prevalentemente nei riti carnevaleschi, compare ora tutto l’anno sui banchi dei comici.
E’ il trionfo del teatro, del raccontare recitando, dove l’oggettività della maschera non permette spazi alla soggettività. L’attore rappresenta una categoria di personaggi. Questo favorirà lo sviluppo della Commedia dell’Arte e il moltiplicarsi dei caratteri, ciascuno in rappresentanza di una parte di tutta la società.
La nobiltà, il clero e gli aristocratici, proprio in questo periodo sentono il bisogno di fondare una propria istituzione culturale formando così le Accademie, organismi volti a produrre una cultura funzionale alle loro esigenze. E’ la nascita dell’Accademia che sancirà la dicotomia tra cultura alta e cultura bassa, che verrà in parte ridotta dalla rivoluzione francese.
Dal variegato mondo dei girovaghi, gli unici che entrano a far parte delle Accademie, saranno i marionettisti, che continueranno comunque a svolgere la loro attività anche al di fuori di questo ambito. Nelle ricerche di questi ultimi decenni sono emerse testimonianze di una notevole quantità di marionette che operano nelle strade e nelle piazze anche se, come le Compagnie d’attori, sono invitate a palazzo.
La Commedia dell’Arte
La Commedia dell’Arte nasce nella Repubblica Veneta, dove è possibile mettere in scena spettacoli profani senza incorrere nelle proibizioni della Chiesa, e si sviluppa ufficialmente nella prima metà del Cinquecento: il documento che sancisce la sua nascita è del 1545, quando un gruppo d’attori stipulano fra loro, con l’ausilio di un notaio, un contratto che li impegna a lavorare insieme per un determinato periodo.
Viste le difficoltà riscontrate in Italia, culla d’origine della Commedia dell’Arte, gli artisti spesso sceglievano la via dell’emigrazione spingendosi in tutti gli angli d’Europa.
Dalla seconda metà del Cinquecento ai primi decenni del Seicento la Commedia dell’Arte si afferma in ogni angolo d’Europa, riscuotendo una notevole attenzione presso tutte le classi sociali. Le maschere, personaggi fissi estremamente caratterizzati, corrispondono alle varie fasce sociali con esclusione di quelle dominanti: nobiltà e clero.
Arlecchino rappresenta la categoria più bassa della società e ricopre il ruolo di servitore Brighella, sua spalla, ricopre un ruolo più alto (maggiordomo, cuoco, oste ecc.) il Dottore, satira dei laureati asserviti al potere, è medico, avvocato, ministro, il Capitano è la classe militare Pantalone è il vecchio mercante avaro e libidinoso Tartaglia, avvocato o notaio, è caratterizzato dall’incalzante balbuzie che, a volte, si ritiene sia stato un espediente per avere il tempo di pensare come imbrogliare il prossimo. Nel 1609 compare per la prima volta, nel teatro di San Giorgio de’ Genovesi a Napoli la maschera di Pulcinella, interpretata dal capitano Silvio Fiorillo, che successivamente sarà portata al successo da Andrea Calcese.
Alla diffusione delle compagnie d’attori della Commedia dell’Arte corrisponde anche quella di burattinai e marionettisti che, ben presto, ritroviamo in Europa.
E’ dalla metà del Seicento che, in Italia, il teatro dei burattini e marionette comincia a connotarsi come spettacolo tout court, non più soltanto di strada.
Sino alla fine del Settecento il repertorio musicale è prevalente in questo genere di spettacolo ed è questo il periodo di nascita dell’altro grande evento che segnò la strada e la storia dello spettacolo nel XVII secolo: il melodramma.
Questo genere musicale accoglie al suo interno anche il teatro delle marionette, che si presta con facilità ai cambiamenti scenici e a sviluppare tutti quei meccanismi che diverranno tipici del teatro barocco.
Venezia diviene la capitale dello spettacolo. La nascita di numerosi teatri pubblici favorisce la formazione di un ambiente culturalmente nuovo, fornendo un teatro con minori censure e più libertà che altrove.
Abbiamo notizie di diversi teatri dove si mettono in scena opere per marionette, anche a Roma. Sono prevalentemente teatri in case private, dove i signori invitano gli artisti e assistono a queste rappresentazioni con famiglie e amici.
La grande fortuna delle marionette nel Seicento e Settecento contribuisce così fattivamente allo sviluppo a alla diffusione del teatro barocco.
Burattinai e marionettisti erano spesso considerati dalle autorità alla stregua dei mendicanti e questo pregiudizio rendeva difficile ottenere le autorizzazioni per gli spettacoli se si aggiunge a ciò il timore della Chiesa che queste aggregazioni spontanee inducessero all’ozio e distogliessero dai divini uffizi, diviene chiara la ragione per cui troviamo i nostri artisti sparsi per tutto il continente, grazie ad una maggiore libertà di poter esercitare le loro arti.
I burattinai compaiono così in Spagna, Inghilterra, Francia, ma anche in Germania, Russia e nei paesi scandinavi. In tutti questi luoghi si diffondono le maschere tipiche del nostro paese, spesso adottate dagli animatori locali e quindi evolute rispetto alla Commedia dell’Arte.
La crisi della Commedia dell’Arte
Nella prima metà del Settecento, la Commedia dell’Arte entra in crisi e inizia una vera e propria riforma, operata da Carlo Goldoni per capire le cause di tale decadenza, occorre vederne l’evoluzione suddividendo l’area francese da quella italiana.
In Italia con la Controriforma nascono le Accademie, in contrapposizione alla Commedia dell’Arte.
In Francia il grande successo dei comici italiani comincia dal 1570 tanto che, Parigi diverrà la vera capitale della Commedia dell’Arte. Successivamente innovazioni drammaturgiche detteranno nuove regole destinate a mettere in crisi le compagnie italiane.
In Italia il superamento delle maschere della Commedia dell’Arte avviene ben prima dell’arrivo di Napoleone. E’ un processo graduale e gli editti giacobini sanzionano definitivamente ciò che è già in atto da diverso tempo.
Possiamo parlare di continuità con la Commedia dell’Arte e non di fine di questa, perché si sviluppa sempre più un teatro dialettale, che vanta autori già nel Seicento e che Goldoni consacra definitivamente.
Gli elementi della Commedia dell’Arte persistono e costituiscono senza dubbio un patrimonio ancora in gran parte insondato della nostra storia culturale e un anello d’unione di vitale importanza tra le origini del nostro teatro e il presente.
Burattini e marionette nel Settecento
Il passaggio dall’uso della maschera della Commedia dell’Arte alla nuova maschera avviene in modo diretto: resta spesso Brighella come primo Zanni (colui che da sempre nelle vesti di protoattore associa la sua arte alla vendita di prodotti, spesso propinati come miracolosi e cerca di accattivarsi il pubblico della piazza) e Arlecchino è sostituito dalla maschera locale.
Questo cambiamento avviene in modo repentino nelle compagnie di burattinai mentre in alcune compagnie di marionette si svilupperà più lentamente.
Nel Settecento comincia già nel teatro delle marionette il concetto di serata, vale a dire spettacolo a pagamento aperto ai nobili e al pubblico che poteva pagare. La serata è composta da: commedia, balli, intermezzi comici e musicali, giochi di bravura e farsa finale.
Nel teatro dei burattini non abbiamo tanto l’elemento da vedere quanto quello da ascoltare, sono maggiormente messe in scena le arguzie, giocate sulle storie popolari, direttamente collegate alla Commedia dell’Arte.
Questo è un teatro che si basa più sulla parola e conseguentemente più esposto ai pericoli della censura perché divulgatore di idee e quindi più fastidioso.
Il teatro dei burattini, rispetto a quello delle marionette, è composto da un numero maggiore di compagnie, c’è una diffusione più capillare, in cui prevale lo spettacolo all’aperto rispetto a quello in teatro, dove i burattinai incominceranno a lavorare solo nell’Ottocento.
Sul finire del ‘700, Napoleone proibisce le maschere della Commedia dell’Arte e tutto quello che può essere ricollegato all’ancien régime.
Nascono perciò nuove maschere senza maschera, personaggi che individualizzavano determinate fasce della società tanto bene quanto i loro predecessori.
Questi nuovi caratteri avranno una valenza regionale, o meglio si diffonderanno all’interno di aree linguistiche ben precise. A Bologna compare Fagiolino, nel ducato di Modena Luigi Campogalliani introduce Sandrone, a Roma compaiono Rugantino e Cassandrino.
Alla fine del ‘700 nasce a Genova Gerolamo per opera di due burattinai Sales e Bellone che si trasferirono poi a Caglianetto, in Piemonte, dove il loro personaggio cambiò nome in Gianduia.
Il teatro delle marionette e dei burattini in età napoleonica
L’invasione napoleonica e la conseguente riunificazione dell’Italia sotto il controllo dell’imperatore francese rappresentano un breve, ma importantissimo periodo della storia del nostro paese. L’assetto economico e politico viene investito dalla forza innovatrice delle idee illuministiche e giacobine proprie della rivoluzione pure il teatro subisce una radicale trasformazione che non coinvolge solo le compagnie di prosa, ma anche quelle di burattini e marionette. La riunificazione, innanzitutto, porta all’abbattimento dei confini politici e quindi favorisce una maggiore mobilità delle compagnie attraverso il nuovo impero.
Di contro con Napoleone nasce la censura teatrale.
Ora, se da un lato è da considerarsi una restrizione alla libertà di azione delle compagnie, dall’altra ciò favorisce la trasmissione delle notizie sulle stesse, permettendoci di studiarne i movimenti e di costruirne una cronistoria, attinta dagli archivi delle prefetture che da allora in poi terranno sempre d’occhio gli spostamenti di questi artisti.
Lo spettacolo e l’intrattenimento vengono in genere utilizzati per diffondere gli ideali della rivoluzione, in contrapposizione con le restrizioni che fino ad allora erano state attuate nei confronti del popolo: esso ha forse, per la prima volta nella storia, l’illusione di essere il vero protagonista politico.
Il burattino è così lo specchio del proprio pubblico, interpretandone i gusti, i modi di fare, il linguaggio e le aspirazioni.
Le compagnie di teatro precedentemente abituate a lunghe peregrinazioni per tutta l’Italia e l’Europa adottano nuove maschere e diventano più stanziali, con la conseguenza di essere costretti a sviluppare più opere in repertorio per poter presentare al pubblico nuove produzioni ogni giorno.
Si sviluppano così una serie di tecniche d’adattamento dei testi teatrali più popolari, ad un uso più specifico dei marionettisti e burattinai.
I generi dai quali maggiormente si attinge sono la prosa e il melodramma, ma si trae spunto anche dalla narrativa: romanzi racconti e storie popolari.
Quest’ampliamento del repertorio continuerà anche dopo la caduta di Napoleone, traendo spunto dalle storie dei santi e dall’Antico e Nuovo Testamento.
Se per le compagnie di burattini ciò significava avere almeno una trentina di burattini per mettere in scena 100-150 produzioni, ben diverso è per le compagnie di marionette, con relative scenografie e costumi per ogni titolo e una vasta attrezzeria di contorno.
Per tutte queste ragioni, mentre le compagnie di burattinai, mediamente composte da due persone possono portare gli spettacoli nei centri più piccoli, per i marionettisti ciò non è possibile visto l’alto costo di gestione della compagnia, che li porta ad operare in centri più popolari dove, spesso, usufruiscono anche di una struttura teatrale.
E’ così che si crea la dicotomia strutturale tra burattini e marionette. I primi più adatti alle campagne, i secondi ai centri urbani.
Riassumendo, l’invasione napoleonica ha posto le basi per un totale rinnovamento del teatro italiano, coinvolgendone tutti i generi: per quanto riguarda il teatro delle marionette e di burattini, questo periodo rappresenta l’inizio di una nuova era che continuerà con il processo di riunificazione.
Nel teatro di prosa, Rosso di San Secondo scrisse il dramma Marionette, che passione! nel 1917, deducendo il titolo dai tre protagonisti visti come esseri incapaci di dare un senso alla propria esistenza in balia delle passioni che li animano guidandoli con invisibili fili. Sul versante recitativo Gordon Craig teorizzò la supermarionetta (Übermarionette), ossia l’attore dotato di una tecnica tale da costruire delle basi fisse sulle quali poi plasmare il lavoro artistico dell’impersonificazione.
Il drammaturgo ed attore napoletano Eduardo De Filippo, affascinato dallo spettacolo delle teste di legno, tradusse La tempesta di William Shakespeare in napoletano, affidandone l’interpretazione a delle marionette.
David Robotti